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annika
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Arte del Rinascimento
annika- C'è un pò di Divino in te!
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annika- C'è un pò di Divino in te!
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Re: Arte del Rinascimento
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annika- C'è un pò di Divino in te!
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thomas- Sempre per un bene superiore!
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Re: Arte del Rinascimento
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Re: Arte del Rinascimento
annika- C'è un pò di Divino in te!
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Re: Arte del Rinascimento
Lorenzo Monaco
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Il pittore gotico Lorenzo Monaco, nome originale Piero Di Giovanni, nasce a Siena intorno al 1370.
Oltre che a dedicarsi alla pittura, Lorenzo Monaco è anche un abile miniaturista.
Si forma a Siena sulle opere di Simone Martini e dei Lorenzetti; a Firenze risente invece l'arte di A. Gaddi e Spinello Aretino.
Protagonista del passaggio dalla tradizione giottesca al Rinascimento, la sua arte è un esempio classico dello stile gotico internazionale unito al flusso aggraziato della linea e al sentimento decorativo tipico della scuola senese di tradizione fiorentina che ha subito gli influssi di Giotto.
Nel 1391 Lorenzo Monaco prende i voti dell' ordine camaldolese e si trasferisce presso il Monastero di Santa Maria degli Angeli, a Firenze. A questo periodo risalgono alcune miniature, gli affreschi, purtroppo danneggiati, nel convento delle oblate e nell'ospedale di S. Maria Nuova, la Pietà all'Accademia di Firenze.
Raggiunge il grado di diacono, ma nel 1402 è iscritto nella corporazione dei pittori sotto il suo nome laico, Piero di Giovanni (Lorenzo Monaco significa appunto: il Monaco Lorenzo) e vive al di fuori del monastero.
Il suo grande polittico "Madonna con Bambino" (1406-1410, Uffizi, Firenze) e la "Incoronazione della Vergine" (1413, Uffizi, Firenze) riflettono in pieno il suo stile, colori chiari, uso di toni biondi, utlizzo sapiente della luce e la sua predilezione per tendaggi che danno ritmo alla scena con forme curvilinee e vorticose.
L'amore per la composizione decorativa e l'uso espressivo della linea sono evidenti soprattutto nei piccoli frammenti della sua predella presso l'Accademia di Firenze, che raffigurano la "Natività", la "Vita di un eremita" e un "Paesaggio marino in tempesta".
Durante gli ultimi anni della sua vita, Lorenzo Monaco è influenzato dal naturalismo di Lorenzo Ghiberti, come si può vedere nei suoi affreschi della "Vita della Vergine" e nella "Pala dell' Annunciazione" (1420-1424, entrambi nella Cappella Bartolini, Santa Trinità, Firenze).
Le opere di Lorenzo Monaco sono in completo contrasto con il suo grande rivale contemporaneo Masaccio e rappresentano la più alta realizzazione dello splendore dell' ultima arte gotica a Firenze.
Lorenzo Monaco muore a Firenze nel 1425.
Secondo quanto riportato dal Vasari, all' età di cinquantacinque anni, "infermatosi d'una postema crudele che lo tenne oppresso molti mesi" e fu sepolto nella sala capitolare del Convento di Santa Maria degli Angeli: un privilegio riservato allora ad alti personaggi del clero, oppure a monaci facoltosi.7muse
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Il pittore gotico Lorenzo Monaco, nome originale Piero Di Giovanni, nasce a Siena intorno al 1370.
Oltre che a dedicarsi alla pittura, Lorenzo Monaco è anche un abile miniaturista.
Si forma a Siena sulle opere di Simone Martini e dei Lorenzetti; a Firenze risente invece l'arte di A. Gaddi e Spinello Aretino.
Protagonista del passaggio dalla tradizione giottesca al Rinascimento, la sua arte è un esempio classico dello stile gotico internazionale unito al flusso aggraziato della linea e al sentimento decorativo tipico della scuola senese di tradizione fiorentina che ha subito gli influssi di Giotto.
Nel 1391 Lorenzo Monaco prende i voti dell' ordine camaldolese e si trasferisce presso il Monastero di Santa Maria degli Angeli, a Firenze. A questo periodo risalgono alcune miniature, gli affreschi, purtroppo danneggiati, nel convento delle oblate e nell'ospedale di S. Maria Nuova, la Pietà all'Accademia di Firenze.
Raggiunge il grado di diacono, ma nel 1402 è iscritto nella corporazione dei pittori sotto il suo nome laico, Piero di Giovanni (Lorenzo Monaco significa appunto: il Monaco Lorenzo) e vive al di fuori del monastero.
Il suo grande polittico "Madonna con Bambino" (1406-1410, Uffizi, Firenze) e la "Incoronazione della Vergine" (1413, Uffizi, Firenze) riflettono in pieno il suo stile, colori chiari, uso di toni biondi, utlizzo sapiente della luce e la sua predilezione per tendaggi che danno ritmo alla scena con forme curvilinee e vorticose.
L'amore per la composizione decorativa e l'uso espressivo della linea sono evidenti soprattutto nei piccoli frammenti della sua predella presso l'Accademia di Firenze, che raffigurano la "Natività", la "Vita di un eremita" e un "Paesaggio marino in tempesta".
Durante gli ultimi anni della sua vita, Lorenzo Monaco è influenzato dal naturalismo di Lorenzo Ghiberti, come si può vedere nei suoi affreschi della "Vita della Vergine" e nella "Pala dell' Annunciazione" (1420-1424, entrambi nella Cappella Bartolini, Santa Trinità, Firenze).
Le opere di Lorenzo Monaco sono in completo contrasto con il suo grande rivale contemporaneo Masaccio e rappresentano la più alta realizzazione dello splendore dell' ultima arte gotica a Firenze.
Lorenzo Monaco muore a Firenze nel 1425.
Secondo quanto riportato dal Vasari, all' età di cinquantacinque anni, "infermatosi d'una postema crudele che lo tenne oppresso molti mesi" e fu sepolto nella sala capitolare del Convento di Santa Maria degli Angeli: un privilegio riservato allora ad alti personaggi del clero, oppure a monaci facoltosi.7muse
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Re: Arte del Rinascimento
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Re: Arte del Rinascimento
Sebastiano del Piombo
Sebastiano del Piombo. - Nome con cui è noto il pittore Sebastiano Luciani (Venezia 1485 circa - Roma 1547). Sussiste qualche incertezza, nella storia critica, sulla prima attività di S., coinvolta nella complessa questione dell'attività e dell'influenza di Giorgione a Venezia nel primo decennio del Cinquecento. A parte alcune opere giovanili attribuite in modo non sempre concorde (Sacra famiglia con santi e donatore, Louvre) e un suo probabile intervento, affermato da M. A. Michiel, nei Tre filosofi di Giorgione (Vienna, Kunsthistorisches Museum), le opere dipinte da S. a Venezia tra il 1506 e il 1511, di pubblica destinazione (Giudizio di Salomone, Kingston Lacy, National Trust; pala di S. Giovanni Crisostomo, Venezia; portelle d'organo con quattro Santi, Venezia, S. Bartolomeo a Rialto), fanno supporre tuttavia un suo ruolo di importanza maggiore di quanto non gli sia stato riconosciuto in passato. Tali opere mostrano, oltre a un influsso di Giorgione nei tipi fisici e nella morbidezza dei contorni, l'influenza dell'opera tarda di G. Bellini e un'impostazione monumentale, sottolineata anche dall'ambientazione architettonica, che sarà sempre più sviluppata dall'artista a contatto con l'ambiente romano. Agli ultimi anni veneziani appartengono inoltre la Morte di Adone (Uffizi) e Salomè (Londra, National Gallery). Nel 1511 S. andò a Roma, su invito di Agostino Chigi, per decorare una sala della sua villa suburbana sul Tevere, poi chiamata Farnesina. Qui eseguì il Polifemo e lunette con soggetti mitologici; gli affreschi, eseguiti con qualche incertezza tecnica, sono caratterizzati da un colore brillante e da un dinamismo compositivo che si pone in contrasto con la scansione architettonica della parete. L'incontro con l'opera di Raffaello, attivo nella stessa sala, che si evidenzia soprattutto in alcuni ritratti (La fornarina, Uffizi; Dorotea, Berlino, Gemäldegalerie; Cardinal Ciocchi del Monte, Dublino, National Gallery of Ireland) doveva presto cedere a un netto accostamento all'arte di Michelangelo. La protezione e l'amicizia del maestro procurò a S. importanti committenze, oltre a onori e cariche presso la corte pontificia. Già nella Deposizione (1516, San Pietroburgo, Ermitage) è evidente l'influsso di Michelangelo, che giunse a fornire all'amico disegni preparatorî per varie opere come la Pietà (1516, Viterbo, Museo Civico), la decorazione della cappella Borgherini in S. Pietro in Montorio (1516-24), la Resurrezione di Lazzaro (1517-19, Londra, National Gallery), dipinto su commissione del cardinal Giulio de' Medici in competizione con la Trasfigurazione di Raffaello. La collaborazione con Michelangelo accentuò la tendenza di S. verso la monumentalità compositiva e il plasticismo delle figure, che si unisce al caldo colore veneto. Tali caratteri informano anche gli straordinarî ritratti di eminenti personaggi, settore importante della sua attività (Clemente VII, Napoli, Museo nazionale di Capodimonte; Andrea Doria, Roma, galleria Doria Pamphili) o le varie immagini di Cristo portacroce (Prado, Ermitage, ecc.). Tra i dipinti religiosi, la Flagellazione (1525, Viterbo, Museo Civico), o la pala della cappella Chigi in S. Maria del Popolo (1532). Dopo la morte di Raffaello, S. fu una delle personalità di maggior rilievo a Roma; dopo il sacco del 1527, e dopo aver assunto la prestigiosa carica di piombatore pontificio (1531), dalla quale derivò il soprannome, rallentò sensibilmente, pur senza interromperla, la propria attività artistica. Treccani on line
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Sebastiano del Piombo. - Nome con cui è noto il pittore Sebastiano Luciani (Venezia 1485 circa - Roma 1547). Sussiste qualche incertezza, nella storia critica, sulla prima attività di S., coinvolta nella complessa questione dell'attività e dell'influenza di Giorgione a Venezia nel primo decennio del Cinquecento. A parte alcune opere giovanili attribuite in modo non sempre concorde (Sacra famiglia con santi e donatore, Louvre) e un suo probabile intervento, affermato da M. A. Michiel, nei Tre filosofi di Giorgione (Vienna, Kunsthistorisches Museum), le opere dipinte da S. a Venezia tra il 1506 e il 1511, di pubblica destinazione (Giudizio di Salomone, Kingston Lacy, National Trust; pala di S. Giovanni Crisostomo, Venezia; portelle d'organo con quattro Santi, Venezia, S. Bartolomeo a Rialto), fanno supporre tuttavia un suo ruolo di importanza maggiore di quanto non gli sia stato riconosciuto in passato. Tali opere mostrano, oltre a un influsso di Giorgione nei tipi fisici e nella morbidezza dei contorni, l'influenza dell'opera tarda di G. Bellini e un'impostazione monumentale, sottolineata anche dall'ambientazione architettonica, che sarà sempre più sviluppata dall'artista a contatto con l'ambiente romano. Agli ultimi anni veneziani appartengono inoltre la Morte di Adone (Uffizi) e Salomè (Londra, National Gallery). Nel 1511 S. andò a Roma, su invito di Agostino Chigi, per decorare una sala della sua villa suburbana sul Tevere, poi chiamata Farnesina. Qui eseguì il Polifemo e lunette con soggetti mitologici; gli affreschi, eseguiti con qualche incertezza tecnica, sono caratterizzati da un colore brillante e da un dinamismo compositivo che si pone in contrasto con la scansione architettonica della parete. L'incontro con l'opera di Raffaello, attivo nella stessa sala, che si evidenzia soprattutto in alcuni ritratti (La fornarina, Uffizi; Dorotea, Berlino, Gemäldegalerie; Cardinal Ciocchi del Monte, Dublino, National Gallery of Ireland) doveva presto cedere a un netto accostamento all'arte di Michelangelo. La protezione e l'amicizia del maestro procurò a S. importanti committenze, oltre a onori e cariche presso la corte pontificia. Già nella Deposizione (1516, San Pietroburgo, Ermitage) è evidente l'influsso di Michelangelo, che giunse a fornire all'amico disegni preparatorî per varie opere come la Pietà (1516, Viterbo, Museo Civico), la decorazione della cappella Borgherini in S. Pietro in Montorio (1516-24), la Resurrezione di Lazzaro (1517-19, Londra, National Gallery), dipinto su commissione del cardinal Giulio de' Medici in competizione con la Trasfigurazione di Raffaello. La collaborazione con Michelangelo accentuò la tendenza di S. verso la monumentalità compositiva e il plasticismo delle figure, che si unisce al caldo colore veneto. Tali caratteri informano anche gli straordinarî ritratti di eminenti personaggi, settore importante della sua attività (Clemente VII, Napoli, Museo nazionale di Capodimonte; Andrea Doria, Roma, galleria Doria Pamphili) o le varie immagini di Cristo portacroce (Prado, Ermitage, ecc.). Tra i dipinti religiosi, la Flagellazione (1525, Viterbo, Museo Civico), o la pala della cappella Chigi in S. Maria del Popolo (1532). Dopo la morte di Raffaello, S. fu una delle personalità di maggior rilievo a Roma; dopo il sacco del 1527, e dopo aver assunto la prestigiosa carica di piombatore pontificio (1531), dalla quale derivò il soprannome, rallentò sensibilmente, pur senza interromperla, la propria attività artistica. Treccani on line
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Re: Arte del Rinascimento
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Cristoforo Colombo - Sebastiano del Piombo
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Ritratto di giovane donna - Sebastiano del Piombo
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Salomè con la testa di Giovanni Battista - Sebastiano del Piombo
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Ritratto di un Umanista- Sebastiano del Piombo
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Re: Arte del Rinascimento
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Re: Arte del Rinascimento
“I BARI” DI CARAVAGGIO COLPISCONO ANCORA: NESSUN RISARCIMENTO ALL’EREDE DELLA TELA CHE AVEVA SCAMBIATO IL CAPOLAVORO DEL PITTORE LOMBARDO PER UNA CROSTA - BATTUTO ALL’ASTA PER 42MILA STERLINE, IL QUADRO VALE 13MILIONI DI EURO
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Dopo la vendita all’incanto il povero e sprovveduto erede ha fatto causa a Sotheby’s per «negligenza» nella valutazione dell’opera - L’Alta corte di Londra ha dato ragione alla casa d’aste: era pressoché impossibile identificare l’autore - All’erede non resta che proporre appello o andare ad ammirare l’opera al Museo dell’Ordine di San Giovanni...
Vedersi sfilare dieci milioni di sterline, vale a dire quei 13 milioni di euro che vale l’olio su tela del Caravaggio dal titolo «I bari», è un brutto colpo. Ma il discendente di uno stimato chirurgo della Royal Navy, Lancelot William Thwaytes, un po’ se l’è andata a cercare. Quando hai in mano qualcosa che sospetti possa essere un tesoro sarebbe meglio ascoltare non dieci ma cento, e forse più, esperti prima di metterlo all’asta.
Rientrarne poi in possesso è impossibile. Ed è pure impossibile, ciò hanno stabilito i giudici dell’Alta corte londinese, chiedere i danni a chi non è stato in grado di attribuire il capolavoro al suo grande, unico e vero maestro, Michelangelo Merisi.
È un mezzo giallo. O una beffa catastrofica (per chi esce a pezzi dalla causa), con tanti protagonisti e con tanti critici ed esperti d’arte messi di mezzo. E ruota attorno al quadro di 94 centimetri per 131 che il Caravaggio dipinse nel 1594. Si pensava, fino a qualche tempo fa, che l’originale fosse in Texas al Kimbell Art Museum. Invece in Inghilterra al Museo dell’Ordine di San Giovanni, nella zona di Clerkenwell (gioiellino fuori dai circuiti turistici) ecco che compare, lasciatovi dal collezionista e storico Denis Mahon, lo splendido dipinto.
E pensare che oltre mezzo secolo fa, nel 1962, la famiglia di Lancelot William Thwaytes l’aveva acquistato per 140 sterline: solo una crosta, bella ma uno scarto di magazzino. Come tale trattato fino al 2006 quando il suo legittimo proprietario, per l’appunto Mr. Lancelot, lo porta alla casa d’aste Sotheby’s. Che non sia proprio un’opera da buttare via è chiaro da subito. Sotheby’s chiede il conforto di stimati professori.
S’interpellano la biografa del Caravaggio, Helen Langdon, poi lo storico dell’arte americano Richard Spear. E il verdetto è che si tratta di una copia attribuibile alla scuola del Caravaggio ma non al Caravaggio stesso. Così la tela va all’asta. E con un risultato da non disprezzare visto che la si batte per 42 mila sterline (oggi 55 mila euro).
Ma chi si aggiudica il quadro? Nominalmente è una signora, Orietta Adam. Dietro, però, il suggeritore e finanziatore è un uomo, Denis Mahon, che è fra i massimi collezionisti e storici dell’arte, specie del barocco. Ha collaborato con molti musei italiani. È proprietario di capolavori del Rinascimento. È lui che versa le 42 mila sterline e fa ripulire la tela. Ed è lui che toglie ogni dubbio: altro che copia, quelli sono «I bari» del Caravaggio. Valore dieci milioni di sterline, 13 milioni di euro.
Fulmine a ciel sereno per l’erede della «crosta», Mr. Lancelot William Thwaytes, che pensava di avere concluso un discreto affare con le 42 mila sterline. Che sia un Caravaggio non c’è dubbio (lo confermeranno anche Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani ed ex ministro dei Beni culturali, e Mina Gregori, accademica dei Lincei, la più importante studiosa del Caravaggio).
Al povero e sprovveduto Lancelot non resta che una strada: la causa a Sotheby’s per «negligenza» nella valutazione dell’opera. Via impervia. Da capire, perché conservare un tesoro (senza comunque sapere di averlo) e svenderlo, è pur sempre un dispiacere. Ma la riparazione tardiva risulta impraticabile.
L’Alta corte di Londra dà ragione alla casa d’aste: era pressoché impossibile identificare l’autore. Il quadro, prima dell’acquisto, era in condizioni tali da nascondere i particolari per l’attribuzione. Merito del fiuto e della competenza di David Mahon che l’ha riportato agli antichi splendori consentendo dunque la scoperta.
Peccato che David Mahon sia nel frattempo morto centenario. Ha lasciato la sua raccolta di 56 capolavori ai musei inglesi e «I bari» in esposizione all’Ordine di San Giovanni in Clerkenwell. A mister Lancelot non resta che una visita (che è gratuita) per andare ad ammirarlo. Meditando se proporre appello o darsi per sconfitto. dagospia
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Dopo la vendita all’incanto il povero e sprovveduto erede ha fatto causa a Sotheby’s per «negligenza» nella valutazione dell’opera - L’Alta corte di Londra ha dato ragione alla casa d’aste: era pressoché impossibile identificare l’autore - All’erede non resta che proporre appello o andare ad ammirare l’opera al Museo dell’Ordine di San Giovanni...
Vedersi sfilare dieci milioni di sterline, vale a dire quei 13 milioni di euro che vale l’olio su tela del Caravaggio dal titolo «I bari», è un brutto colpo. Ma il discendente di uno stimato chirurgo della Royal Navy, Lancelot William Thwaytes, un po’ se l’è andata a cercare. Quando hai in mano qualcosa che sospetti possa essere un tesoro sarebbe meglio ascoltare non dieci ma cento, e forse più, esperti prima di metterlo all’asta.
Rientrarne poi in possesso è impossibile. Ed è pure impossibile, ciò hanno stabilito i giudici dell’Alta corte londinese, chiedere i danni a chi non è stato in grado di attribuire il capolavoro al suo grande, unico e vero maestro, Michelangelo Merisi.
È un mezzo giallo. O una beffa catastrofica (per chi esce a pezzi dalla causa), con tanti protagonisti e con tanti critici ed esperti d’arte messi di mezzo. E ruota attorno al quadro di 94 centimetri per 131 che il Caravaggio dipinse nel 1594. Si pensava, fino a qualche tempo fa, che l’originale fosse in Texas al Kimbell Art Museum. Invece in Inghilterra al Museo dell’Ordine di San Giovanni, nella zona di Clerkenwell (gioiellino fuori dai circuiti turistici) ecco che compare, lasciatovi dal collezionista e storico Denis Mahon, lo splendido dipinto.
E pensare che oltre mezzo secolo fa, nel 1962, la famiglia di Lancelot William Thwaytes l’aveva acquistato per 140 sterline: solo una crosta, bella ma uno scarto di magazzino. Come tale trattato fino al 2006 quando il suo legittimo proprietario, per l’appunto Mr. Lancelot, lo porta alla casa d’aste Sotheby’s. Che non sia proprio un’opera da buttare via è chiaro da subito. Sotheby’s chiede il conforto di stimati professori.
S’interpellano la biografa del Caravaggio, Helen Langdon, poi lo storico dell’arte americano Richard Spear. E il verdetto è che si tratta di una copia attribuibile alla scuola del Caravaggio ma non al Caravaggio stesso. Così la tela va all’asta. E con un risultato da non disprezzare visto che la si batte per 42 mila sterline (oggi 55 mila euro).
Ma chi si aggiudica il quadro? Nominalmente è una signora, Orietta Adam. Dietro, però, il suggeritore e finanziatore è un uomo, Denis Mahon, che è fra i massimi collezionisti e storici dell’arte, specie del barocco. Ha collaborato con molti musei italiani. È proprietario di capolavori del Rinascimento. È lui che versa le 42 mila sterline e fa ripulire la tela. Ed è lui che toglie ogni dubbio: altro che copia, quelli sono «I bari» del Caravaggio. Valore dieci milioni di sterline, 13 milioni di euro.
Fulmine a ciel sereno per l’erede della «crosta», Mr. Lancelot William Thwaytes, che pensava di avere concluso un discreto affare con le 42 mila sterline. Che sia un Caravaggio non c’è dubbio (lo confermeranno anche Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani ed ex ministro dei Beni culturali, e Mina Gregori, accademica dei Lincei, la più importante studiosa del Caravaggio).
Al povero e sprovveduto Lancelot non resta che una strada: la causa a Sotheby’s per «negligenza» nella valutazione dell’opera. Via impervia. Da capire, perché conservare un tesoro (senza comunque sapere di averlo) e svenderlo, è pur sempre un dispiacere. Ma la riparazione tardiva risulta impraticabile.
L’Alta corte di Londra dà ragione alla casa d’aste: era pressoché impossibile identificare l’autore. Il quadro, prima dell’acquisto, era in condizioni tali da nascondere i particolari per l’attribuzione. Merito del fiuto e della competenza di David Mahon che l’ha riportato agli antichi splendori consentendo dunque la scoperta.
Peccato che David Mahon sia nel frattempo morto centenario. Ha lasciato la sua raccolta di 56 capolavori ai musei inglesi e «I bari» in esposizione all’Ordine di San Giovanni in Clerkenwell. A mister Lancelot non resta che una visita (che è gratuita) per andare ad ammirarlo. Meditando se proporre appello o darsi per sconfitto. dagospia
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Re: Arte del Rinascimento
Piero della Francesca
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Piero della Francesca è senza dubbio uno dei più grandi pittori italiani del Quattrocento. La sua pittura spaziosa, monumentale e impassibilmente razionale è senza dubbio uno dei raggiungimenti più alti degli ideali artistici del primo Rinascimento, un'età in cui arte e scienza erano unite da vincoli profondi. Come Leonardo da Vinci, nato due generazioni dopo di lui, Piero fu un grande sperimentatore: grande maestro dell'affresco, tecnica nella quale eccelse, fu interessato soprattutto all'applicazione delle regole recentemente riscoperte della prospettiva alla pittura narrativa e devozionale: l'assoluto rigore matematico delle sue creazioni contribuisce ad esaltare la qualità astratta ed iconica della sua pittura, conferendo ai suoi capolavori una potente valenza sacrale.
«Monarca della pittura» ai suoi tempi - come lo dichiarò il concittadino Luca Pacioli (1494) -, poco dopo la morte la sua opera venne ben presto dimenticata, se si eccettuano il profilo che gli dedicò Giorgio Vasari nelle due edizioni delle sue Vite (1550; 1568) e i ricordi per la sua attività di teorico della prospettiva contenuti in alcuni trattati cinquecenteschi di architettura. La grande stagione della «maniera moderna» con i suoi protagonisti - Leonardo, Raffaello e Michelangelo - fece d'un tratto apparire ad artisti, committenti e collezionisti di un gusto ormai superato tutti i capolavori dei grandi maestri del Quattrocento. Si dovette attendere la riscoperta sette e ottocentesca dei «pre-raffaelliti» perché amatori e storici dell'arte ritornassero a guardare e ad apprezzare le opere del maestro di Sansepolcro: ma sono stati soprattutto gli studi novecenteschi a far riacquistare a Piero della Francesca quel ruolo di primo piano che gli compete nello sviluppo della pittura italiana moderna.
Piero nacque intorno al 1415 a Borgo San Sepolcro: il padre, Benedetto, era mercante di cuoiami e di lane, mentre la madre, Romana di Perino, era originaria del vicino borgo di Monterchi. Sansepolcro era allora un fiorente centro strategicamente collocato all'incrocio tra Toscana, Marche ed Umbria: passato dalla signoria dei Malatesta al controllo dello Stato della Chiesa nel 1431, papa Eugenio IV lo cedette, poco dopo la battaglia di Anghiari (29 giugno 1440), al Comune di Firenze per 25.000 fiorini (20 marzo 1441). Nella città dell'alta val tiberina Piero dovette fare il suo primissimo apprendistato pittorico, insieme al poco conosciuto Antonio d'Anghiari: ma le sue prime opere note manifestano una profonda comprensione dell'arte fiorentina del primo Quattrocento, in particolare della pittura chiara, luminosa e prospettica di Domenico Veneziano. A fianco di questo artista Piero è infatti documentato nel 1439 nel capoluogo toscano, come aiuto per l'esecuzione degli affreschi con le Storie della Vergine per il Coro della chiesa di Sant'Egidio. Anche i capolavori di Donatello e Masaccio dovettero lasciare sul giovane pittore una traccia profonda e indelebile. I riflessi più immediati di questa educazione artistica si ritrovano in una delle opere più antiche di Piero che ci sia pervenuta, il Battesimo di Cristo (Londra, National Gallery), proveniente da Sansepolcro e acquisito dal museo inglese poco dopo la metà del secolo scorso.
A partire dal quinto decennio del Quattrocento la carriera di Piero si svolse alternando soggiorni presso le principali corti dell'Italia centro-settentrionale e nella città natale. Nella seconda metà degli anni quaranta dovrebbe collocarsi la sua attività a Ferrara, dove lavorò per il marchese Leonello d'Este, uno dei più raffinati mecenati del Rinascimento: purtroppo interamente perduti sono gli affreschi che Piero eseguì lì nel Castello estense e nella chiesa di Sant'Agostino. Datato 1451 è invece l'affresco raffigurante Sigismondo Pandolfo Malatesta in adorazione di San Sigismondo all'interno del Tempio Malatestiano di Rimini, rinnovato in forme rinascimentali da Leon Battista Alberti; più tardi Piero replicò il ritratto di profilo del condottiero malatestiano nella tavola oggi al Louvre, concordemente assegnatagli dopo la pulitura e le analisi del 1977. È probabile che nella città romagnola il pittore biturgense abbia stretto delle relazioni proprio con l'Alberti, che dovette incoraggiarlo a perseguire la sua indagine appassionata sulle leggi prospettiche e proporzionali.
Frattanto, nel 1445, i suoi concittadini gli avevano commissionato il grande Polittico della Misericordia (Sansepolcro, Museo Civico), al quale l'artista lavorerà in modo discontinuo, per consegnarlo dopo tante insistenze solo nel 1462: il vigoroso impianto plastico delle figure - di ascendenza masaccesca - è messo in risalto dal rigore astratto della composizione e dal valore luminoso ed atmosferico attribuito persino all'arcaico fondo d'oro. Le scene della predella, probabilmente ideate da Piero, vennero eseguite dal monaco camaldolese fiorentino Giuliano Amedei.
Nel 1452, alla morte del pittore fiorentino ultratradizionalista Bicci di Lorenzo, Piero accettò l'incarico di proseguirne il lavoro nella grande cappella absidale della chiesa di San Francesco ad Arezzo, su commissione della famiglia Bacci. Le Storie della Vera Croce, affrescate in tre registri sovraspposti sulle alte pareti, lo occuperanno in una prima fase fino alla fine degli anni cinquanta, quando Piero si trasferì temporaneamente a Roma (1459), invitato dal papa umanista Pio II Piccolomini per dipingere a fresco alcune scene nei palazzi vaticani, distrutte cinquant'anni più tardi per far posto agli affreschi di Raffaello nelle celebri Stanze. Il ciclo di Arezzo, certamente terminato entro il 1465 dopo il rientro dalla città pontificia, rimane così come una fulgida testimonianza dell'arte di Piero della Francesca nella fase centrale della sua attività ed uno dei maggiori cicli di pittura murale nell'Italia del Quattrocento.
Sin dal 1454 un'altra prestigiosa commissione gli era giunta dai propri concittadini, l'esecuzione del Polittico destinato all'altar maggiore della chiesa degli Agostiniani: ancora una volta il lavoro si protrasse a lungo e il grande dipinto, smembrato già nel Cinquecento, fu consegnato solo negli anni sessanta. Perduta la centrale Madonna col bambino, i pannelli laterali, effigiantiSant'Agostino, San Michele, San Giovanni Evangelista e San Nicola da Tolentino, sono oggi divisi tra diversi musei (rispettivamente Lisbona, Londra, New York, Milano) mentre alcuni elementi della predella sono divisi tra Washington (Sant'Apollonia) e la collezione Frick di New York (due santi agostiniani e la Crocifissione). All'inizio degli anni sessanta risalgono pure la commovente Madonna del parto per la cappella del cimitero di Monterchi e la straordinaria Resurrezione nella Sala dei Conservatori della Residenza (il Palazzo Comunale) di Sansepolcro (oggi sede del Museo Civico), al contempo simbolo civico e sacra icona, che lo scrittore contemporaneo Aldous Huxley ha definito «la più bella pittura del mondo».
Nel 1954 venne ritrovato nella chiesa di Sant'Agostino a Sansepolcro un frammento di affresco con una figura di santo, probabilmente San Giuliano (oggi Sansepolcro, Museo Civico), un'opera di grande eleganza, eseguita con il consueto magistero tecnico probabilmente dopo il ritorno dal soggiorno romano del 1458-59. Ancora discussa è invece la datazione del Polittico per le monache francescane di Sant'Antonio a Perugia (Perugia, Galleria Nazionale dell'Umbria), nel quale ancora una volta Piero riesce a superare le limitazioni dell'antiquato fondo oro impostogli dalle committenti, lasciando libero spazio alla sua genialità nelle belle scene della predella e nel prodigioso tour de force prospettico dell'Annunciazione sovrastante.
Nel corso degli anni sessanta e settanta Piero strinse dei rapporti particolarmente intensi con la splendida corte di Urbino e con il duca Federigo del Montefeltro, per il quale portò a termine alcune delle sue opere più celebri: il dittico con i ritratti dei duchi, Federigo e la moglie Battista Sforza (Firenze, Galleria degli Uffizi), la celebre Flagellazione (Urbino, Galleria Nazionale dell'Umbria), una vera e propria summa delle sue indagini sulla prospettiva, nonché la Sacra Conversazione per la chiesa di San Bernardino (Milano, Pinacoteca di Brera), con il celebre ritratto in armatura del duca Federigo (1472-74): un dipinto rivoluzionario che rompe con la tradizione medievale del polittico a scomparti per proporre il concentrato dialogo tra la Vergine e i Santi in uno spazio prospetticamente unitario e misurabile, in diretto rapporto con lo spettatore.
In questi dipinti dell'estrema maturità, cui si devono aggiungere almeno l'intima Madonna di Senigallia (Urbino, Galleria Nazionale dell'Umbria) e la poetica Natività di Londra (National Gallery), Piero rivela un interesse sempre più profondo per la coeva pittura di Fiandra, che si manifesta nella più complessa tessitura cromatica e nell'osservazione minuziosa della realtà, analiticamente indagata nella sua relazione con la luce.
In questi anni urbinati, stimolato dall'ambiente intellettuale della corte, Piero si dedicò anche alla stesura di alcuni trattati teorici, intesi a ricondurre alla essenziale e misurabile regolarità delle forme geometriche l'infinità varietà degli oggetti naturali. Sono giunti sino a noi il Trattato dell'Abaco, una sorta di manuale di matematica elementare come quelli in uso nelle scuole d'abaco; il Libellus de quinque corporibus regularibus, dedicato a Guidobaldo duca di Urbino e pubblicato da Luca Pacioli dopo la morte dell'artista come opera propria; infine la fatica maggiore, il De prospectiva pingendi, trattato ricco di disegni e inteso come guida pratica alla prospettiva.
Divenuto cieco nei suoi anni estremi, Piero della Francesca si spense a Borgo San Sepolcro il 12 ottobre del 1492.
Fonte: Fondazione|PierodellaFrancesca
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Piero della Francesca è senza dubbio uno dei più grandi pittori italiani del Quattrocento. La sua pittura spaziosa, monumentale e impassibilmente razionale è senza dubbio uno dei raggiungimenti più alti degli ideali artistici del primo Rinascimento, un'età in cui arte e scienza erano unite da vincoli profondi. Come Leonardo da Vinci, nato due generazioni dopo di lui, Piero fu un grande sperimentatore: grande maestro dell'affresco, tecnica nella quale eccelse, fu interessato soprattutto all'applicazione delle regole recentemente riscoperte della prospettiva alla pittura narrativa e devozionale: l'assoluto rigore matematico delle sue creazioni contribuisce ad esaltare la qualità astratta ed iconica della sua pittura, conferendo ai suoi capolavori una potente valenza sacrale.
«Monarca della pittura» ai suoi tempi - come lo dichiarò il concittadino Luca Pacioli (1494) -, poco dopo la morte la sua opera venne ben presto dimenticata, se si eccettuano il profilo che gli dedicò Giorgio Vasari nelle due edizioni delle sue Vite (1550; 1568) e i ricordi per la sua attività di teorico della prospettiva contenuti in alcuni trattati cinquecenteschi di architettura. La grande stagione della «maniera moderna» con i suoi protagonisti - Leonardo, Raffaello e Michelangelo - fece d'un tratto apparire ad artisti, committenti e collezionisti di un gusto ormai superato tutti i capolavori dei grandi maestri del Quattrocento. Si dovette attendere la riscoperta sette e ottocentesca dei «pre-raffaelliti» perché amatori e storici dell'arte ritornassero a guardare e ad apprezzare le opere del maestro di Sansepolcro: ma sono stati soprattutto gli studi novecenteschi a far riacquistare a Piero della Francesca quel ruolo di primo piano che gli compete nello sviluppo della pittura italiana moderna.
Piero nacque intorno al 1415 a Borgo San Sepolcro: il padre, Benedetto, era mercante di cuoiami e di lane, mentre la madre, Romana di Perino, era originaria del vicino borgo di Monterchi. Sansepolcro era allora un fiorente centro strategicamente collocato all'incrocio tra Toscana, Marche ed Umbria: passato dalla signoria dei Malatesta al controllo dello Stato della Chiesa nel 1431, papa Eugenio IV lo cedette, poco dopo la battaglia di Anghiari (29 giugno 1440), al Comune di Firenze per 25.000 fiorini (20 marzo 1441). Nella città dell'alta val tiberina Piero dovette fare il suo primissimo apprendistato pittorico, insieme al poco conosciuto Antonio d'Anghiari: ma le sue prime opere note manifestano una profonda comprensione dell'arte fiorentina del primo Quattrocento, in particolare della pittura chiara, luminosa e prospettica di Domenico Veneziano. A fianco di questo artista Piero è infatti documentato nel 1439 nel capoluogo toscano, come aiuto per l'esecuzione degli affreschi con le Storie della Vergine per il Coro della chiesa di Sant'Egidio. Anche i capolavori di Donatello e Masaccio dovettero lasciare sul giovane pittore una traccia profonda e indelebile. I riflessi più immediati di questa educazione artistica si ritrovano in una delle opere più antiche di Piero che ci sia pervenuta, il Battesimo di Cristo (Londra, National Gallery), proveniente da Sansepolcro e acquisito dal museo inglese poco dopo la metà del secolo scorso.
A partire dal quinto decennio del Quattrocento la carriera di Piero si svolse alternando soggiorni presso le principali corti dell'Italia centro-settentrionale e nella città natale. Nella seconda metà degli anni quaranta dovrebbe collocarsi la sua attività a Ferrara, dove lavorò per il marchese Leonello d'Este, uno dei più raffinati mecenati del Rinascimento: purtroppo interamente perduti sono gli affreschi che Piero eseguì lì nel Castello estense e nella chiesa di Sant'Agostino. Datato 1451 è invece l'affresco raffigurante Sigismondo Pandolfo Malatesta in adorazione di San Sigismondo all'interno del Tempio Malatestiano di Rimini, rinnovato in forme rinascimentali da Leon Battista Alberti; più tardi Piero replicò il ritratto di profilo del condottiero malatestiano nella tavola oggi al Louvre, concordemente assegnatagli dopo la pulitura e le analisi del 1977. È probabile che nella città romagnola il pittore biturgense abbia stretto delle relazioni proprio con l'Alberti, che dovette incoraggiarlo a perseguire la sua indagine appassionata sulle leggi prospettiche e proporzionali.
Frattanto, nel 1445, i suoi concittadini gli avevano commissionato il grande Polittico della Misericordia (Sansepolcro, Museo Civico), al quale l'artista lavorerà in modo discontinuo, per consegnarlo dopo tante insistenze solo nel 1462: il vigoroso impianto plastico delle figure - di ascendenza masaccesca - è messo in risalto dal rigore astratto della composizione e dal valore luminoso ed atmosferico attribuito persino all'arcaico fondo d'oro. Le scene della predella, probabilmente ideate da Piero, vennero eseguite dal monaco camaldolese fiorentino Giuliano Amedei.
Nel 1452, alla morte del pittore fiorentino ultratradizionalista Bicci di Lorenzo, Piero accettò l'incarico di proseguirne il lavoro nella grande cappella absidale della chiesa di San Francesco ad Arezzo, su commissione della famiglia Bacci. Le Storie della Vera Croce, affrescate in tre registri sovraspposti sulle alte pareti, lo occuperanno in una prima fase fino alla fine degli anni cinquanta, quando Piero si trasferì temporaneamente a Roma (1459), invitato dal papa umanista Pio II Piccolomini per dipingere a fresco alcune scene nei palazzi vaticani, distrutte cinquant'anni più tardi per far posto agli affreschi di Raffaello nelle celebri Stanze. Il ciclo di Arezzo, certamente terminato entro il 1465 dopo il rientro dalla città pontificia, rimane così come una fulgida testimonianza dell'arte di Piero della Francesca nella fase centrale della sua attività ed uno dei maggiori cicli di pittura murale nell'Italia del Quattrocento.
Sin dal 1454 un'altra prestigiosa commissione gli era giunta dai propri concittadini, l'esecuzione del Polittico destinato all'altar maggiore della chiesa degli Agostiniani: ancora una volta il lavoro si protrasse a lungo e il grande dipinto, smembrato già nel Cinquecento, fu consegnato solo negli anni sessanta. Perduta la centrale Madonna col bambino, i pannelli laterali, effigiantiSant'Agostino, San Michele, San Giovanni Evangelista e San Nicola da Tolentino, sono oggi divisi tra diversi musei (rispettivamente Lisbona, Londra, New York, Milano) mentre alcuni elementi della predella sono divisi tra Washington (Sant'Apollonia) e la collezione Frick di New York (due santi agostiniani e la Crocifissione). All'inizio degli anni sessanta risalgono pure la commovente Madonna del parto per la cappella del cimitero di Monterchi e la straordinaria Resurrezione nella Sala dei Conservatori della Residenza (il Palazzo Comunale) di Sansepolcro (oggi sede del Museo Civico), al contempo simbolo civico e sacra icona, che lo scrittore contemporaneo Aldous Huxley ha definito «la più bella pittura del mondo».
Nel 1954 venne ritrovato nella chiesa di Sant'Agostino a Sansepolcro un frammento di affresco con una figura di santo, probabilmente San Giuliano (oggi Sansepolcro, Museo Civico), un'opera di grande eleganza, eseguita con il consueto magistero tecnico probabilmente dopo il ritorno dal soggiorno romano del 1458-59. Ancora discussa è invece la datazione del Polittico per le monache francescane di Sant'Antonio a Perugia (Perugia, Galleria Nazionale dell'Umbria), nel quale ancora una volta Piero riesce a superare le limitazioni dell'antiquato fondo oro impostogli dalle committenti, lasciando libero spazio alla sua genialità nelle belle scene della predella e nel prodigioso tour de force prospettico dell'Annunciazione sovrastante.
Nel corso degli anni sessanta e settanta Piero strinse dei rapporti particolarmente intensi con la splendida corte di Urbino e con il duca Federigo del Montefeltro, per il quale portò a termine alcune delle sue opere più celebri: il dittico con i ritratti dei duchi, Federigo e la moglie Battista Sforza (Firenze, Galleria degli Uffizi), la celebre Flagellazione (Urbino, Galleria Nazionale dell'Umbria), una vera e propria summa delle sue indagini sulla prospettiva, nonché la Sacra Conversazione per la chiesa di San Bernardino (Milano, Pinacoteca di Brera), con il celebre ritratto in armatura del duca Federigo (1472-74): un dipinto rivoluzionario che rompe con la tradizione medievale del polittico a scomparti per proporre il concentrato dialogo tra la Vergine e i Santi in uno spazio prospetticamente unitario e misurabile, in diretto rapporto con lo spettatore.
In questi dipinti dell'estrema maturità, cui si devono aggiungere almeno l'intima Madonna di Senigallia (Urbino, Galleria Nazionale dell'Umbria) e la poetica Natività di Londra (National Gallery), Piero rivela un interesse sempre più profondo per la coeva pittura di Fiandra, che si manifesta nella più complessa tessitura cromatica e nell'osservazione minuziosa della realtà, analiticamente indagata nella sua relazione con la luce.
In questi anni urbinati, stimolato dall'ambiente intellettuale della corte, Piero si dedicò anche alla stesura di alcuni trattati teorici, intesi a ricondurre alla essenziale e misurabile regolarità delle forme geometriche l'infinità varietà degli oggetti naturali. Sono giunti sino a noi il Trattato dell'Abaco, una sorta di manuale di matematica elementare come quelli in uso nelle scuole d'abaco; il Libellus de quinque corporibus regularibus, dedicato a Guidobaldo duca di Urbino e pubblicato da Luca Pacioli dopo la morte dell'artista come opera propria; infine la fatica maggiore, il De prospectiva pingendi, trattato ricco di disegni e inteso come guida pratica alla prospettiva.
Divenuto cieco nei suoi anni estremi, Piero della Francesca si spense a Borgo San Sepolcro il 12 ottobre del 1492.
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Re: Arte del Rinascimento
FILIPPO BRUNELLESCHI
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Filippo Brunelleschi nacque a Firenze nel 1377. Svolse il suo apprendistato di artista in una bottega di orafo, eseguì per l'altare d'argento del Duomo di Pistoia due figure di Padri della chiesa e due busti di Profeti.
Nel 1401 si mise in luce con il concorso per la seconda porta bronzea del battistero di Firenze, che gli valse la vittoria ex-equo con Lorenzo Ghiberti realizzatore dell'opera.
La formella di Brunelleschi, rappresentante il Sacrificio di Isacco, ha un'effetto drammatico dato dalla composizione mossa che si contrappone al sereno classicismo della formella con lo stesso soggetto di Ghiberti.
Tra le altre opere di scultura eseguite da Brunelleschi abbiamo il Crocifisso ligneo di Santa Maria Novella che egli realizzò tra il 1418 e il 1420, con proporzioni perfettamente armoniche in polemica con il Crocifisso che Donatello realizzò per la chiesa di Santa Croce giudicata dal Brunelleschi stesso come troppo rozzo e contadinesco.
Nel 1418 l'Arte della Lana bandì un concorso per la realizzazione della cupola di Santa Maria del Fiore, realizzazione della quale presentava numerosi problemi, cioè l'ampiezza e la notevole altezza, che non permettevano l'uso di impalcature da terra. Brunelleschi utilizzò una particolare struttura muraria a corsi di mattoni disposti a spina di pesce che permettevano l'innalzamento senza bisogno di sostegni. Inoltre dette alla cupola una forma a sesto acuto costolonata in modo da dividere la superficie in otto spicchi che consentissero un facile inserimento sul tamburo precedentemente costruito in forma ottagonale.
Alla sommità della cupola si erige la lanterna a forma di tempietto circolare che rappresenta il perno dell'intera costruzione.
La sua architettura è rigorosamente razionale, basata sul linearismo prospettico e sulla chiara modulazione dello spazio, per esempio nella Loggia per l'Ospedale degli Innocenti costruita dall'artista tra il 1421 e il 1424, nella quale la chiarezza, la semplicità e linearità delle forme rappresentano una novità.
Intorno al 1423 Brunelleschi inizia la realizzazione della chiesa di San Lorenzo che si completerà nel 1428 con la costruzione della Sacrestia. La chiesa all'interno è composta di tre navate divise da archi a tutto sesto che riprendono i motivi della Loggia e che danno una illusoria sensazione di profondità dello spazio. La Sacrestia invece è un vano cubico con cupola emisferica divisa in dodici spicchi.
Tra il 1430 e il 1444 Brunelleschi realizzò per la famiglia Pazzi la cappella che si trova nel chiostro di Santa Croce. Essa ha una pianta rettangolare con un vano centrale quadrato e due ali laterali. Il portico che si trova sul davanti fu realizzato da un allievo del maestro dopo la sua morte ma è rimasto incompiuto.
Nel 1444 Brunelleschi iniziò anche i lavori per ricostruire la chiesa di Santo Spirito, imponente e monumentale.
Filippo Brunelleschi morì a Firenze nel 1446.
Fonte: StoriadellArte
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Filippo Brunelleschi nacque a Firenze nel 1377. Svolse il suo apprendistato di artista in una bottega di orafo, eseguì per l'altare d'argento del Duomo di Pistoia due figure di Padri della chiesa e due busti di Profeti.
Nel 1401 si mise in luce con il concorso per la seconda porta bronzea del battistero di Firenze, che gli valse la vittoria ex-equo con Lorenzo Ghiberti realizzatore dell'opera.
La formella di Brunelleschi, rappresentante il Sacrificio di Isacco, ha un'effetto drammatico dato dalla composizione mossa che si contrappone al sereno classicismo della formella con lo stesso soggetto di Ghiberti.
Tra le altre opere di scultura eseguite da Brunelleschi abbiamo il Crocifisso ligneo di Santa Maria Novella che egli realizzò tra il 1418 e il 1420, con proporzioni perfettamente armoniche in polemica con il Crocifisso che Donatello realizzò per la chiesa di Santa Croce giudicata dal Brunelleschi stesso come troppo rozzo e contadinesco.
Nel 1418 l'Arte della Lana bandì un concorso per la realizzazione della cupola di Santa Maria del Fiore, realizzazione della quale presentava numerosi problemi, cioè l'ampiezza e la notevole altezza, che non permettevano l'uso di impalcature da terra. Brunelleschi utilizzò una particolare struttura muraria a corsi di mattoni disposti a spina di pesce che permettevano l'innalzamento senza bisogno di sostegni. Inoltre dette alla cupola una forma a sesto acuto costolonata in modo da dividere la superficie in otto spicchi che consentissero un facile inserimento sul tamburo precedentemente costruito in forma ottagonale.
Alla sommità della cupola si erige la lanterna a forma di tempietto circolare che rappresenta il perno dell'intera costruzione.
La sua architettura è rigorosamente razionale, basata sul linearismo prospettico e sulla chiara modulazione dello spazio, per esempio nella Loggia per l'Ospedale degli Innocenti costruita dall'artista tra il 1421 e il 1424, nella quale la chiarezza, la semplicità e linearità delle forme rappresentano una novità.
Intorno al 1423 Brunelleschi inizia la realizzazione della chiesa di San Lorenzo che si completerà nel 1428 con la costruzione della Sacrestia. La chiesa all'interno è composta di tre navate divise da archi a tutto sesto che riprendono i motivi della Loggia e che danno una illusoria sensazione di profondità dello spazio. La Sacrestia invece è un vano cubico con cupola emisferica divisa in dodici spicchi.
Tra il 1430 e il 1444 Brunelleschi realizzò per la famiglia Pazzi la cappella che si trova nel chiostro di Santa Croce. Essa ha una pianta rettangolare con un vano centrale quadrato e due ali laterali. Il portico che si trova sul davanti fu realizzato da un allievo del maestro dopo la sua morte ma è rimasto incompiuto.
Nel 1444 Brunelleschi iniziò anche i lavori per ricostruire la chiesa di Santo Spirito, imponente e monumentale.
Filippo Brunelleschi morì a Firenze nel 1446.
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Re: Arte del Rinascimento
L'incredibile storia del quadro di Leonardo messo all'asta
Sessant'anni fa Sotheby's lo aveva battuto per 45 dollari, ignorandone il vero autore. Ora che è stato riconosciuto come l'unico quadro di Leonardo da Vinci ancora in mani private, Christie's prevede di ricavarne 75 milioni di sterline, ovvero circa 100 milioni di dollari. Il 'Salvator Mundi', dipinto intorno all'inizio del '500 dal genio del Rinascimento, sei anni dopo l'attribuzione e la clamorosa esposizione alla National Gallery, va all'asta, ultimo capitolo della storia rocambolesca e secolare del dipinto.
Dalle corti reali alla svendita di Sotheby's
Commissionato dal re di Francia Luigi XII, il 'Salvator Mundi' figurò all'inizio del diciassettesimo secolo nella straordinaria collezione privata di Carlo I d'Inghilterra. Il dipinto sopravvisse allo smembramento della raccolta avvenuta dopo la decapitazione del sovrano, nel 1649, e fu ereditato dal figlio, Carlo II. Non è noto come il quadro finisca, il secolo successivo, nella galleria privata dei duchi di Buckingham, che lo venderanno all'asta nel 1763 insieme a tutte le altre opere conservate nel Buckingham Palace, appena ceduto alla famiglia reale.
L'incredibile storia del quadro di Leonardo messo all'asta
Del 'Salvator Mundi' non si seppe più nulla fino al 1900, quando - spiega il sito della casa d'aste - fu acquistato da Sir Charles Robinson per la Cook Collection. Il volto e i capelli del Cristo erano stati nel frattempo ridipinti e l'autore fu identificato in Bernardino Luini, un allievo di Leonardo. La Cook Collection venne poi dispersa e il capolavoro, scambiato per una crosta qualsiasi, riapparve nel 1958 a un'asta di Sotheby's, dove viene aggiudicato per 45 dollari per poi scomparire di nuovo fino al 2005, quando viene rilevato da un consorzio di uomini d'affari statunitensi. Anche in questo caso l'autore viene ritenuto un allievo di Leonardo, non il Luini ma Giovanni Antonio Boltraffio.Questa volta, però, viene sollevato il dubbio che l'autore potesse essere il maestro stesso. Gli specialisti si mettono al lavoro. Dopo sei anni di complesse ricerche, il 'Salvator Mundi' viene autenticato quale opera di Leonardo e nel 2011 diventa la sorpresa che fa entrare nella storia la mostra della National Gallery dedicata al da Vinci.
Falliti i tentativi del museo di Dallas di acquistarlo, il quadro viene messo all'asta da Christie. Se vi avanzano 100 milioni di dollari, l'appuntamento è il 15 novembre a New York.AGI.IT
Christie's stima di ricavarne 100 milioni di dollari. Sotheby's, nel 1958, lo aveva ceduto per pochi spiccioli
[Devi essere iscritto e connesso per vedere questa immagine]Sessant'anni fa Sotheby's lo aveva battuto per 45 dollari, ignorandone il vero autore. Ora che è stato riconosciuto come l'unico quadro di Leonardo da Vinci ancora in mani private, Christie's prevede di ricavarne 75 milioni di sterline, ovvero circa 100 milioni di dollari. Il 'Salvator Mundi', dipinto intorno all'inizio del '500 dal genio del Rinascimento, sei anni dopo l'attribuzione e la clamorosa esposizione alla National Gallery, va all'asta, ultimo capitolo della storia rocambolesca e secolare del dipinto.
Dalle corti reali alla svendita di Sotheby's
Commissionato dal re di Francia Luigi XII, il 'Salvator Mundi' figurò all'inizio del diciassettesimo secolo nella straordinaria collezione privata di Carlo I d'Inghilterra. Il dipinto sopravvisse allo smembramento della raccolta avvenuta dopo la decapitazione del sovrano, nel 1649, e fu ereditato dal figlio, Carlo II. Non è noto come il quadro finisca, il secolo successivo, nella galleria privata dei duchi di Buckingham, che lo venderanno all'asta nel 1763 insieme a tutte le altre opere conservate nel Buckingham Palace, appena ceduto alla famiglia reale.
L'incredibile storia del quadro di Leonardo messo all'asta
Del 'Salvator Mundi' non si seppe più nulla fino al 1900, quando - spiega il sito della casa d'aste - fu acquistato da Sir Charles Robinson per la Cook Collection. Il volto e i capelli del Cristo erano stati nel frattempo ridipinti e l'autore fu identificato in Bernardino Luini, un allievo di Leonardo. La Cook Collection venne poi dispersa e il capolavoro, scambiato per una crosta qualsiasi, riapparve nel 1958 a un'asta di Sotheby's, dove viene aggiudicato per 45 dollari per poi scomparire di nuovo fino al 2005, quando viene rilevato da un consorzio di uomini d'affari statunitensi. Anche in questo caso l'autore viene ritenuto un allievo di Leonardo, non il Luini ma Giovanni Antonio Boltraffio.Questa volta, però, viene sollevato il dubbio che l'autore potesse essere il maestro stesso. Gli specialisti si mettono al lavoro. Dopo sei anni di complesse ricerche, il 'Salvator Mundi' viene autenticato quale opera di Leonardo e nel 2011 diventa la sorpresa che fa entrare nella storia la mostra della National Gallery dedicata al da Vinci.
Falliti i tentativi del museo di Dallas di acquistarlo, il quadro viene messo all'asta da Christie. Se vi avanzano 100 milioni di dollari, l'appuntamento è il 15 novembre a New York.AGI.IT
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- Messaggio n°77
Re: Arte del Rinascimento
- PARMIGIANINO -
Girolamo Francesco Maria Mazzola detto Parmigianino (Parma, 11 gennaio 1503 – Casalmaggiore, 24 agosto 1540) è stato un pittore italiano, fondamentale esponente della corrente manierista e della pittura emiliana in generale.
L'appellativo "il Parmigianino", oltre che dalle origini, gli derivò dalla corporatura minuta e dall'aspetto gentile.
Biografia
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Autoritratto entro uno specchio convesso, 1524, Vienna, Kunsthistorisches Museum
Origini e apprendistato
I Mazzola, anticamente originari di Pontremoli, si erano trasferiti a Parma fin dal 1305 e avevano praticato il commercio e l'artigianato ottenendo una solida base economica.
In un documento dell'archivio del battistero di Parma, Francesco risulta nato nella vicinia di San Paolo a Parma, l'11 gennaio 1503, dal pittore Filippo Mazzola e, come si ricava da altri documenti, una certa Donatella Abbati; ottavo di nove figli, fu battezzato due giorni dopo, il 13 gennaio. Il padre, dalla prima moglie Maria (figlia del pittore cremonese Francesco Tacconi, del quale era stato allievo), aveva avuto i figli maggiori, tra cui si conosce solo uno Zaccaria, pittore di scarso rilievo documentato nel 1525 in Umbria.
La famiglia del Parmigianino viveva nel vicolo delle Asse, oggi chiamato "borgo del Parmigianino". Anche gli zii Pier Ilario e Michele erano pittori che, alla morte di Filippo, avvenuta secondo il Vasari nel 1505 per un'epidemia di peste, si presero cura di Francesco per avviarlo allo studio del disegno e della pittura, "ancor che essi furono vecchi e pittori di non molta fama". I suoi zii furono infatti artisti modesti, ripetitori di una provinciale pittura di origine ferrarese: poterono insegnargli solo il corredo tecnico necessario a qualunque apprendista. Esempi importanti per la sua formazione artistica, anche se non decisivi, furono piuttosto gli affreschi del Correggio e dall'Anselmi a Parma e l'osservazione delle opere dei lombardi operanti a Cremona, come il Melone, il Bembo e soprattutto il Pordenone; dovette inoltre guardare a opere in città come quelle di Cima da Conegliano e Francesco Francia, nonché ai maestri locali come Francesco Marmitta e Cristoforo Caselli.
Molto probabilmente ebbe modo anche di ricevere un'educazione letteraria e musicale. La sua consuetudine con la lettura è testimoniata ad esempio in un disegno relativo agli affreschi della rocca di Fontanellato dove compare il primo verso della lirica CCCXXIV del Canzoniere di Francesco Petrarca.
Prime opere
Nel 1515 gli zii di Francesco ricevettero un acconto per una cappella nella chiesa di San Giovanni Evangelista, allora ancora in costruzione, ma non diedero nemmeno avvio ai lavori: alcuni hanno ipotizzato che meditassero già di farsi sostituire dal talentuoso nipote, che però all'epoca aveva appena dodici anni. Vasari dopotutto lo considerava già pittore autonomo a sedici anni, quando «dopo aver fatto miracoli nel disegno, fece in una tavola di suo capriccio un San Giovanni che battezza Cristo, il quale condusse di maniera, che ancora chi la vede resta meravigliato che da un putto fusse condotta sì bene una simil cosa. Fu posta questa tavola in Parma alla Nunziata, dove stanno i frati de' Zoccoli».
In un documento del 1517, in cui si metteva una sorta di ipoteca sulla casa per fornire di dote la figlia maggiore che si maritava, è riportato lo stato di famiglia Mazzola all'epoca: tra i vari componenti ci sono due figli maschi non maggiorenni, Giovanni, di anni venti, e Francesco, di quindici, mentre Zaccaria, ormai maggiorenne (cioè di più di 25 anni), aveva ormai lasciato la città, saldando la sua porzione di "ipoteca".
La guerra fra gli imperiali di Carlo V e i francesi di Francesco I, che devastava il nord Italia, si era nel frattempo avvicinata a Parma. Nel 1521, quindi, gli zii decisero in via precauzionale di mandare Francesco in provincia, a Viadana, assieme al garzone Girolamo Bedoli-Mazzola (che nel 1529 sposerà Caterina Elena Mazzola, figlia di Pier Ilario). Qui, riferisce il Vasari, dipinse "due tavole a tempera, una delle quali, dove è san Francesco che riceve le stimite e santa Chiara, fu posta nella chiesa de' frati de' Zoccoli, e l'altra, nella quale è uno sposalizio di santa Caterina, con molte figure, fu posta in S. Piero. Né creda niuno che queste siano opere da principiante e giovane, ma da maestro e vecchio".
La tavola del San Francesco è ormai perduta, mentre l'altra è stata riconosciuta nella cosiddetta Pala di Bardi, oggi conservata nella chiesa di Santa Maria Addolorata di Bardi.
La guerra si concluse alla fine del 1521 e il Vasari scrisse che "finita la guerra e tornato Francesco col cugino a Parma... fece in una tavola a olio la Nostra Donna col Figliuolo in collo, San Ieronimo da un lato e il beato Bernardino da Feltro nell'altro" (opera perduta). La vittoria sui francesi, dei quali venne respinto l'assedio il 21 dicembre 1521, fu poco dopo l'occasione per erigere una nuova chiesa in ringraziamento alla Vergine, dove Parmigianino contribuì poi alla decorazione: la Madonna della Steccata.
Gli affreschi in San Giovanni Evangelista
La città era adesso sicuramente tenuta dal commissario e governatore apostolico Francesco Guicciardini; poterono così riprendere i lavori nella chiesa di San Giovanni Evangelista dove, almeno dal 21 novembre 1522, è documentato Parmigianino al fianco del Correggio, di Francesco Maria Rondani e di Michelangelo Anselmi. Nella cupola Parmigianino dipinse almeno un putto al lato di uno dei pennacchi, più "malizioso e guizzante" di quelli correggeschi.
Si dedicò quindi alle cappelle laterali (prima, seconda e quarta cappella della navata sinistra), in cui si legge già una pennellata salda e sciolta, nonché una sensibilità atta a creare figure monumentali e venate di risvolti psicologici.
Nella prima cappella affrescò Sant'Agata e il carnefice, proiettato illusionisticamente verso l'osservatore, diversamente dalle Sante Lucia e Apollonia, che restano inserite in una nicchia semicircolare; mostrano attenzione alla maniera dell'Anselmi, un correggesco formatosi a Siena nello studio del Sodoma e del Beccafumi. Suoi sono anche il fregio e il sottostante Eterno con angeli, molto rovinato.
Nella seconda cappella affrescò i Due diaconi leggenti, il presunto San Vitale - o, forse, San Secondo -, i Putti e animali e il monocromo dipinto nel sottarco della cappella. Il cavallo impennato a fianco del San Secondo è in relazione con un particolare dell'affresco della Crocifissione eseguito due anni prima dal Pordenone nel duomo di Cremona, del quale tuttavia Parmigianino attenuò la gestualità esibita e violenta, ammorbidendola secondo un movimento più fluido delle figure.
La decorazione della quarta cappella era stata affidata il 27 febbraio 1515 agli zii Michele e Pier Ilario; l'insolvibilità del proprietario della cappella, Nicolò Zangrandi, aveva fatto rimandare i lavori, che poterono iniziare solo nel 1522. Già attribuiti al Parmigianino, solo recentemente la scoperta di disegni preparatori li ha fatti assegnare invece con relativa certezza a Michelangelo Anselmi.
Il successo in San Giovanni gli aprì le porte di nuove commissioni. Già il 21 novembre 1522 i fabbricieri del duomo di Parma firmarono un contratto coi suoi zii per la decorazione con quattro figure della crociera sopra l'altare. In quell'occasione egli è già definito "magister", malgrado la giovanissima età che richiedeva ancora la presenza dei tutori; venne pattuito un congruo compenso di 145 ducati d'oro (si pensi che a Correggio per l'intera cupola e le pertinenze erano stati accordati, il 3 novembre, 1000 ducati). Parmigianino, però, alla fine in Duomo non mise mai alla prova il proprio pennello.
Alla corte dei Sanvitale
Nel 1523 o, al più tardi, nella prima metà del 1524, prima della partenza per Roma, nel soffitto di una stanza della Rocca Sanvitale di Fontanellato, presso Parma, affrescò la cosiddetta "stufetta" (bagno privato) con quattordici lunette con episodi della favola ovidiana di Diana e Atteone, intramezzate da pennacchi in cui sono dipinti dodici putti; lo sfondo è dato da un pergolato a cui segue più in alto una siepe di rose, oltre la quale si affaccia il cielo; al centro del cielo è uno specchio rotondo recante la scritta RESPICE FINEM ("osserva la fine", inteso della storia).
Gli affreschi si compongono di quattro scene, con la Ninfa inseguita dai cacciatori, l'Atteone mutato in cervo, l'Atteone sbranato dai cani, e la Cerere con le spighe, in cui è forse rappresentata Paola Gonzaga, moglie del committente Galeazzo Sanvitale. È evidente il debito dovuto al Correggio della Camera di San Paolo e tuttavia il plasticismo pieno e naturalistico del suo maestro si ammorbidisce qui in soluzioni di più fluida e lieve stilizzazione.
Il mito di Atteone che, per aver sorpreso la dea Diana al bagno, viene da questa mutato in cervo ed è sbranato dai suoi stessi cani, è stato interpretato come una metafora del processo alchemico, dell'unione del principio maschile e femminile, ove il cacciatore Atteone, pur di appropriarsi del principio divino, la dea Diana, è disposto a mutarsi da predatore a preda e a morire.
La tavola del Ritratto di un collezionista è il suo primo esempio di ritratto, ma non è noto il nome dell'uomo, individuato come un collezionista dagli oggetti d'arte che vengono rappresentati nella tavola, e che s'impone per la forza espressiva della posa e per lo sguardo tagliente e arrogante. Ben riconoscibile è il Libro d'Ore Durazzo - manoscritto miniato dal concittadino Francesco Marmitta - che l'uomo reca nella mano.
Dello stesso periodo è anche il Ritratto di Galeazzo Sanvitale, opera di rappresentanza che coniuga un pungente realismo, spesso virtuosistico, con la sfarzosa rappresentazione degli status symbol del committente, dall'armatura scintillante all'abito elegantissimo, dai guanti da nobile alla medaglia tenuta in mano, che ricorda i suoi interessi culturali.
Preparativi per Roma
Nell'estate del 1524, cessata un'epidemia di peste, partì per Roma; scrive Vasari che "venuto in desiderio di veder Roma [...] disse l'animo e disiderio suo ai vecchi zii, ai quali parendo che non fusse cotal desiderio se non lodevole, dissero esser contenti, ma che sarebbe ben fatto che egli avesse portato seco qualche cosa di sua mano che gli facesse entratura a que' signori et agl'artefici della professione; il qual consiglio non dispiacendo a Francesco, fece tre quadri, due piccoli et uno assai grande, nel quale fece la Nostra Donna col Figliuolo in collo che toglie di grembo a un Angelo alcuni frutti et un vecchio con le braccia piene di peli, fatto con arte e giudizio e vagamente colorito [...]. Finite queste opere [...] accompagnato da uno de' suoi zii, si condusse a Roma".
Delle tre tavole citate da Vasari, si sono riconosciute la Sacra Famiglia con angeli, oggi al Museo del Prado e il suo famoso Autoritratto entro uno specchio convesso, di cui fu Vasari impressionato dall'invenzione del giovane artista: oltre la bellezza "angelica" del pittore e la novità suggestiva dell'invenzione, vi si può cogliere una manifestazione della nuova sensibilità manieristica, grazie alla presenza della visione anamorfica della mano deformata dalla forma dello specchio.
Può darsi che gli stessi Sanvitale incoraggiarono e favorirono il viaggio: Paola era infatti sorella di Giulia Gonzaga, la moglie di Vespasiano Colonna, e cognata quindi di Vittoria Colonna, la regina dei circoli intellettuali romani. Inoltre il cardinale Innocenzo Cybo, vicinissimo al papa, avrebbe dovuto presiedere al battesimo del figlio di Galeazzo e Paola nel settembre 1523: uno dei primi lavori a Roma Parmigianino lo ottenne infatti proprio dal fratello del cardinale, Lorenzo Cybo.
Nel viaggio a Roma Francesco fu accompagnato dallo zio Pier Ilario e forse, passando per l'Umbria, si unì ai due anche suo fratello Zaccaria, attivo a Perugia e altrove, e la cui firma si trova tra quelle degli artisti nelle "grotte" della Domus Aurea.
A Roma
Arrivato a Roma, fece dono delle sue opere a papa Clemente VII, ma non ottenne commissioni dirette dal pontefice, nonostante la promessa di affidargli la Sala dei Pontefici nell'Appartamento Borgia. Lavorò piuttosto per personaggi della corte pontificia, come Lorenzo Cybo, capitano delle guardie pontificie, che ritrasse verso il 1524. In questa opera, oggi a Copenaghen, confermò la sua grande acutezza d'individuazione psicologica.
A Roma studiò soprattutto Raffaello, del quale veniva indicato spesso come "novello" successore, come ricorda Vasari: "lo spirito del qual Raffaello si diceva poi esser passato nel corpo di Francesco, per vedersi quel giovane nell'arte raro e ne' costumi gentile e grazioso [... e] s'ingegnava d'immitarlo in tutte le cose, ma soprattutto nella pittura; il quale studio non fu invano, perché molti quadretti che fece in Roma, la maggior parte de' quali vennero poi in mano del cardinal Ippolito de' Medici, erano veramente maravigliosi". Entrò nei circoli dei discepoli di Raffaello attivi ai Palazzi Vaticani dopo la morte del maestro, conoscendo Perin del Vaga, Baldassarre Peruzzi, Polidoro da Caravaggio, oltre a Sebastiano del Piombo e Rosso Fiorentino. Da quest'ultimo, che lavorava per lo stesso editore di stampe tratte da loro disegni, Baverio dei Carocci, dovette trarre feconde ispirazioni per la sua pittura futura, con l'esasperato allungamento delle figure e la pittura a tocchi rapidi, non fusi, che saranno tenute presenti nelle successive opere del Parmigianino. Degli studi di Raffaello e dell'arte classica restano vari disegni, come una testa del Laocoonte a Chatsworth o uno schizzo della Scuola di Atene, alla Royal Library del Castello di Windsor.
La conta delle opere create nel breve soggiorno romano è un argomento assai controverso nella critica. Molti lavori sono infatti riferiti ora al 1524-1527, ora al successivo periodo bolognese (fino al 1530). Ad esempio, la Sacra Famiglia con san Giovannino del Museo di Capodimonte è il più raffaellesco e classico dei suoi dipinti, con richiami alla Madonna del Diadema blu della bottega di Raffaello, ma oggi si tende in genere ad identificarlo con una delle opere a "guazzo" che Vasari ricordò come eseguite appena arrivato a Bologna.
Sicuramente a Roma eseguì la Visione di san Girolamo, una monumentale pala d'altare che avrebbe dovuto essere al centro di un trittico, commissionato da Maria Bufalini di Città di Castello. La tavola, dipinta nel 1527, fu preceduta da un intenso lavoro preparatorio e fu interrotta per il sopraggiungere dei Lanzichenecchi durante il Sacco di Roma. Originalissima e volutamente spregiudicata è la composizione che si assesta su piani verticali in sequenza, in rapida successione, senza interesse a definire uno spazio geometricamente misurabile, ma che al contrario appare innaturale e vertiginoso. Il Battista in primo piano, compiendo una torsione di michelangiolesca memoria, indirizza lo spettatore alla visione della Vergine col Bambino più in alto, illuminata da una luce divina dietro l'aureola che ricorda le epifanie divine del Correggio. San Girolamo addormentato ha evocato col suo sogno la visione e si trova scorciato su un prato a destra, in una posa che ricorda la Venere di Correggio. Ma rispetto ai modelli resta originalissimo il rapporto tra le figure, l'allungamento delle proporzioni, l'uso espressivo del colore e l'estrema ricercatezza nei dettagli.
Il Sacco
Il 6 maggio 1527 i Lanzichenecchi giunsero dunque in città.
Nonostante i drammatici avvenimenti del Sacco, inizialmente il pittore restò in città dove, secondo la cronaca che fornisce Vasari, trovò la protezione di alcuni soldati tedeschi folgorati dalla visione della pala a cui stava lavorando. Essi gli richiesero disegni e acquerelli come taglia, ma poi, sentendosi minacciato da altre truppe, fu spedito in tutta fretta in Emilia dallo zio Pier Ilario, che si trovava con lui, il quale si prese cura, prima di lasciare a sua volta la città, di affidare la Visione di san Girolamo ai frati di Santa Maria della Pace.
Studi recenti ipotizzano che la spavalda avventura del Parmigianino fosse stata in realtà resa possibile dal rifugio trovato presso gli accoglienti Colonna, filoimperiali, proprio in virtù delle sue conoscenze coi Sanvitale a essi imparentati.
Il periodo bolognese
Giunse nel giugno 1527 in Emilia ma, invece di tornare a casa, decise di stabilirsi a Bologna, che a quell'epoca era la seconda più popolosa città dello Stato Pontificio: probabilmente la fama acquistata nella Città Eterna lo spinse a cercare fortuna in un altro grande centro, piuttosto che nella propria città. Vi rimase quasi quattro anni, durante i quali raggiunse la maggiore età, emancipandosi completamente dagli zii.
La sua prima opera bolognese fu, secondo Vasari, il San Rocco e un donatore per la basilica di San Petronio. In quest'opera, in linea con la Visione di san Girolamo, aggiunse una carica sentimentale - gli occhi al cielo del Santo, lo sguardo compuntamente insistito del donatore, persino la partecipazione emotiva del cane - che resta come bloccata e irrisolta nell'enfasi ricercata della gestualità di san Rocco. Era ancora poco frequente trovare, nella tradizione italiana precedente la Controriforma, la rappresentazione di un unico santo che esprimesse la mediazione della esigenze devote di un offerente con il cielo.
Dalla nota di Vasari - "fece poi per l'Albio, medico parmigiano, una conversione di san Paulo con molte figure e con un paese, che fu cosa rarissima" - si è individuata la tela della Conversione di san Paolo di Vienna, in passato assegnata tuttavia a Nicolò dell'Abate. Esiste infatti un disegno che riproduce con poche variazioni la tela e, se il riferimento alla Cacciata di Eliodoro dal tempio di Raffaello, nelle Stanze vaticane, è chiaro, la figura antinaturalistica del cavallo, dal collo gonfio e la testa piccola e sottile, le redini ridotte a un filamento capriccioso, la gualdrappa setosa, le vesti leggere del santo, le lumeggiature dorate della superficie, danno al dipinto il segno di un'invenzione decorativa, di un'astrazione deformata e compiaciuta.
Intorno al 1528 risale anche la composizione dell'Adorazione dei Magi di Taggia. Opera cardine del periodo bolognese è però la Madonna di Santa Margherita, dipinta tra il 1529 e il 1530. In questo lavoro le figure allungate ed estremamente eleganti hanno una varietà di pose, gesti e sguardi che generano un moto circolare per l'occhio dello spettatore, incitato da linee di forza a spostarsi da un capo all'altro della pala, secondo una tecnica già usata da Correggio. Il segno è veloce, con tocchi rapidi che restano visibili e danno alla pittura un effetto vibrante di estrema modernità.
Notevole è anche la Madonna della Rosa, opera di estrema raffinatezza, dal sapore quasi pagano, commissionata da Pietro Aretino e donata poi a papa Clemente VII in occasione della sua visita in città per l'incoronazione di Carlo V. La veste trasparente della Madonna, la posa del Bambino dai capelli inanellati e con un bracciale di corallo al polso, gli sbuffi della tenda, danno infatti al dipinto un'essenziale impronta profana, persino sensuale. Lo comprese bene anche Ireneo Affò, per il quale infatti l'opera avrebbe dovuto rappresentare una Venere e Cupido, ma l'ipotesi viene smentita da tutti i disegni preparatori. In realtà i temi, religiosi o profani che siano, devono soggiacere all'irreversibile indirizzo stilistico scelto dal Parmigianino: eleganza decorativa, preziosità formale e ricercato virtuosismo compositivo.
In definitiva, i risultati del periodo bolognese sul piano economico e sociale furono sostanzialmente poco concludenti: le commissioni furono defilate (un convento femminile, alcuni borghesi) e i nuovi tentativi di fare breccia nel papa andarono a vuoto. L'occasione per un salto di qualità arrivò piuttosto dall'imperatore, che, come ci informa ancora Vasari, "Francesco, andando talora a vederlo mangiare, fece senza ritrarlo l'immagine di esso Cesare a olio in un quadro grandissimo, et in quello dipinse la Fama che lo coronava di lauro, et un fanciullo in forma d'un Ercole piccolino che gli porgeva il mondo quasi dandogliene il dominio". In quest'opera, forse oggi in una collezione privata statunitense (ma forse solo copia dell'originale perduto), la Fama, che può meglio interpretarsi come la Gloria o una Vittoria alata, sospende un ramoscello di palma - simbolo delle conquiste spirituali - sopra il capo dell'imperatore e uno di alloro - simbolo delle conquiste materiali - sul globo retto dal putto. Alla fine si trattò di una nuova occasione mancata: così complicato e ricco di simboli, il ritratto non dovette piacere all'augusto, che dimostrò piuttosto di apprezzare l'aulica celebrazione di Tiziano, suo pittore ufficiale di lì a qualche anno.
A partire da quegli anni, per arrotondare, praticò sistematicamente il disegno e l'incisione, facendo pubblicare numerosi suoi lavori che così poterono essere conosciuti su vasta scala.
Il ritorno a Parma
Tra l'aprile del 1530 e il maggio del 1531 l'artista, che finora a Bologna "molto esperimentatosi nell'arte, senza aver fatto però acquisto nessuno di facultà, ma solo d'amici" (Vasari), prese contatti sempre più fitti con i fabbricieri della Madonna della Steccata nella sua città natale, per un'impresa pittorica, finalmente, di rilievo. Non è un caso che nel 1530 Correggio avesse lasciato la città, insoddisfatto per le critiche mosse all'audacia del suo capolavoro, la cupola del Duomo di Parma. Il santuario, sorto come ringraziamento alla Madonna per la vittoria contro i Francesi del 1521, era retto da una confraternita dedita a varie attività, tra cui soprattutto quella di provvedere di dote le fanciulle povere ma oneste. Il contratto con l'artista venne firmato il 10 maggio 1531 e prevedeva la decorazione ad affresco dell'abside nella cappella maggiore e del sottarco sul presbiterio, per cui venne scelto il tema delle Vergini sagge e vergini stolte, particolarmente adatto all'attività di sostenimento nuziale della confraternita. Venne pattuito un compenso di 400 scudi d'oro e un termine dei lavori entro diciotto mesi.
Illuminanti sulla sua condizione in quegli anni sono i vari traslochi. Intanto si rileva come non abiti più con la famiglia, né nelle vicinanze, non lontano dal duomo: con i Mazzola, tanto presenti nella prima parte della sua biografia, sembra infatti aver rotto decisamente i ponti, ma nessun documento spiega questa vicenda privata; scartate le ipotesi di una controversia economica (non ve ne è traccia negli archivi di notai e avvocati parmensi) o politica (i Mazzola erano artigiani, mai presenti nella gestione del potere cittadino), si trattò forse di uno "scandalo", magari la pratica dell'alchimia di cui parla Vasari, o magari, come suggeriscono alcuni indizi, la scoperta della sua omosessualità.
Nel novembre del 1532 risultava residente in Sant'Alessandro, praticamente davanti alla Steccata, dove doveva lavorare all'epoca alacremente. Nel 1533 era in Sant'Antonino e l'anno successivo invece si allontanò bruscamente, stabilendosi nella vicinia di Santa Cecilia, nell'Oltretorrente, nei quartieri artigianali con case più modeste e dagli affitti conseguentemente più bassi. La nuova dimora (una casa con corte e giardino che costava trenta ducati all'anno) sembra indicare la volontà precisa di allontanarsi dalla Steccata, segnando simbolicamente l'abbandono dell'impresa e una crisi nei rapporti con parenti, amici e protettori fino ad allora solidali.
Il 6 novembre 1532 l'artista aveva infatti ottenuto una prima proroga sul completamento dei lavori, seguita nel 1535 da un'ingiunzione a ritirarsi dall'impresa che, per le sue rimostranze, venne trasformata in una nuova proroga, al settembre 1536.
Risalgono a quegli anni alcune opere di piccolo e medio formato, per committenti privati, necessarie al sostentamento: Ritratto di giovane donna detto la Schiava turca, tra i più espressivi della sua produzione, la Minerva e altre. Straordinario è il ritratto della cosiddetta Antea, un'apparizione improvvisa e inquietante, dal naturalismo solo apparente, negato dall'ingrandimento "allucinante di tutto il braccio e la spalla destra, su cui la pelle di martora pesa a dismisura, la deformazione abnorme che codesta spaurita, dall'aria consunta e rassegnata, ostenta come un penoso sfallo di natura" (Bologna).
Mentre i rapporti con i confratelli della Steccata peggioravano, capolavori quali la Madonna di San Zaccaria o il Cupido che fabbrica l'arco sembrano prodotti per ingraziarsi amici e protettori durante la controversia legale seguente. La prima, creata prima del 1533, sembra infatti destinata a coprire le spese di rappresentanza legale presso un avvocato bolognese; il secondo è invece dipinto per l'amico Francesco Baiardi che, con l'architetto Damiano da Pleta, fornì la fideiussione, garantendo per l'artista quando riscosse il secondo anticipo di 100 scudi nel novembre 1532.
Il 3 giugno 1538 i fabbricieri della Steccata intimarono la restituzione di 225 scudi per inadempienza. Ottenuta una nuova proroga fino al 26 agosto 1539, e non conclusi ancora i lavori, la Confraternita adì alle vie legali e fece incarcerare il Parmigianino per quasi due mesi. Dopo la scarcerazione, il pittore lasciò Parma per Casalmaggiore. Nell'atto notarile del 19 dicembre 1539 si determina che "maestro Francesco Mazzolo pictore non si abbia più per modo alcuno intromettersi né impaciare de la pictura de la Capella grande de la giesa nova de la Madonna de la Steccata", affidando poi il disegno dell'opera a Giulio Romano che tuttavia, raggiunto da una lettera e da un minaccioso messo "amichissimo" del Parmigianino, declinò l'invito, nonostante l'iniziale assenso.
Capolavoro di quegli anni è la Madonna dal collo lungo, lasciata incompleta alla sua partenza da Parma. In essa, creata per la cappella della sorella del cavalier Baiardo, le forme allungate e sinuose, l'asimmetria, l'anticlassicismo giungono a un livello tale da costituire una decisa rottura degli equilibri del Rinascimento, che ne fanno uno dei dipinti più importanti e rappresentativi del Manierismo italiano.
L'ultimo rifugio
Casalmaggiore, Santuario della Madonna della Fontana, luogo di sepoltura del Parmigianino
La scarcerazione è databile ai primi mesi del 1540 e una tradizione locale, non confermata da documenti, riporta come l'artista, prima di fuggire, distrusse quel poco di suo che era abbozzato nell'abside della Steccata, offeso dall'onta dei confratelli. Se ne fuggì quindi in tutta fretta a Casalmaggiore, cittadina appena al di fuori dei confini dello Stato parmense, oggi in provincia di Cremona. Non ebbe tempo di trattenersi a San Secondo Parmense, alla corte dei Rossi di San Secondo, dove invece dovette essere stato ospite qualche anno prima, realizzando un poderoso Ritratto di Pier Maria Rossi di San Secondo e forse abbozzando soltanto quello della moglie, completato poi da qualcun altro.
Qui nell'aprile scrisse la famosa lettera a Giulio Romano, che lo esortava a rinunciare all'incarico di fornire disegni per l'abside della Steccata, in quanto tale lavoro poteva completarlo benissimo lui e ottenere quei trecento scudi che gli sarebbero spettati, in nome di una solidarietà tra artisti. Fece accompagnare la missiva da un suo fidato "amichissimo", il quale, come ebbe e scrivere Giulio Romano stesso nella sua lettera di rifiuto dell'incarico ai confratelli della Steccata, era "molto arrogante con una gran chiacchiera et parlava per geroglifici et molto devoto del detto Francesco et sviscerato et meglio c'uno advocato sapeva difendere le sue ragioni et confonder quelle de le signorie vostre. In modo a quello c'io potei comprendere par che ne poteria sequir scandalo, la qual cosa molto aborisco maximamente perché in questo guadagnuzzo non li ha da esser mia ricchezza..."
Per sopravvivere l'artista dipinse per la chiesa locale una Pala, oggi a Dresda, dove domina un irreale silenzio tra i partecipanti e con colori spenti e irreali, che venne completata, compresi gli accurati studi su carta, entro i cinque mesi scarsi che passò nella cittadina. Stando a quanto riporta Vasari, ebbe tempo anche di dipingere una Lucrezia romana, opera dalla bellezza della statuaria classica, oggi a Napoli.
Il 5 agosto 1540, infatti, durante l'estate che si può immaginare torrida, l'artista si ammalò, forse di malaria, e fece testamento, lasciando eredi i suoi tre servitori ancora minorenni, che erano forse anche suoi aiutanti nell'arte, e 100 scudi alla sorella Ginevra.
Preso da "una febbre grave e da un flusso crudele" (Vasari), nel giro di qualche settimana morì, "et a questo modo pose fine ai travagli di questo mondo, che non fu mai conosciuto da lui se non pieno di fastidii e di noie".
Fu sepolto nella chiesa dei Serviti nei dintorni di Casalmaggiore, nudo con una croce d'arcipresso sul petto in alto, come da lui disposto, secondo l'uso francescano. Dal 1846 ivi è ricordato da una lapide, posta nella seconda cappella a sinistra.
Fonte: Wikipedia
Girolamo Francesco Maria Mazzola detto Parmigianino (Parma, 11 gennaio 1503 – Casalmaggiore, 24 agosto 1540) è stato un pittore italiano, fondamentale esponente della corrente manierista e della pittura emiliana in generale.
L'appellativo "il Parmigianino", oltre che dalle origini, gli derivò dalla corporatura minuta e dall'aspetto gentile.
Biografia
[Devi essere iscritto e connesso per vedere questa immagine]
Autoritratto entro uno specchio convesso, 1524, Vienna, Kunsthistorisches Museum
Origini e apprendistato
I Mazzola, anticamente originari di Pontremoli, si erano trasferiti a Parma fin dal 1305 e avevano praticato il commercio e l'artigianato ottenendo una solida base economica.
In un documento dell'archivio del battistero di Parma, Francesco risulta nato nella vicinia di San Paolo a Parma, l'11 gennaio 1503, dal pittore Filippo Mazzola e, come si ricava da altri documenti, una certa Donatella Abbati; ottavo di nove figli, fu battezzato due giorni dopo, il 13 gennaio. Il padre, dalla prima moglie Maria (figlia del pittore cremonese Francesco Tacconi, del quale era stato allievo), aveva avuto i figli maggiori, tra cui si conosce solo uno Zaccaria, pittore di scarso rilievo documentato nel 1525 in Umbria.
La famiglia del Parmigianino viveva nel vicolo delle Asse, oggi chiamato "borgo del Parmigianino". Anche gli zii Pier Ilario e Michele erano pittori che, alla morte di Filippo, avvenuta secondo il Vasari nel 1505 per un'epidemia di peste, si presero cura di Francesco per avviarlo allo studio del disegno e della pittura, "ancor che essi furono vecchi e pittori di non molta fama". I suoi zii furono infatti artisti modesti, ripetitori di una provinciale pittura di origine ferrarese: poterono insegnargli solo il corredo tecnico necessario a qualunque apprendista. Esempi importanti per la sua formazione artistica, anche se non decisivi, furono piuttosto gli affreschi del Correggio e dall'Anselmi a Parma e l'osservazione delle opere dei lombardi operanti a Cremona, come il Melone, il Bembo e soprattutto il Pordenone; dovette inoltre guardare a opere in città come quelle di Cima da Conegliano e Francesco Francia, nonché ai maestri locali come Francesco Marmitta e Cristoforo Caselli.
Molto probabilmente ebbe modo anche di ricevere un'educazione letteraria e musicale. La sua consuetudine con la lettura è testimoniata ad esempio in un disegno relativo agli affreschi della rocca di Fontanellato dove compare il primo verso della lirica CCCXXIV del Canzoniere di Francesco Petrarca.
Prime opere
Nel 1515 gli zii di Francesco ricevettero un acconto per una cappella nella chiesa di San Giovanni Evangelista, allora ancora in costruzione, ma non diedero nemmeno avvio ai lavori: alcuni hanno ipotizzato che meditassero già di farsi sostituire dal talentuoso nipote, che però all'epoca aveva appena dodici anni. Vasari dopotutto lo considerava già pittore autonomo a sedici anni, quando «dopo aver fatto miracoli nel disegno, fece in una tavola di suo capriccio un San Giovanni che battezza Cristo, il quale condusse di maniera, che ancora chi la vede resta meravigliato che da un putto fusse condotta sì bene una simil cosa. Fu posta questa tavola in Parma alla Nunziata, dove stanno i frati de' Zoccoli».
In un documento del 1517, in cui si metteva una sorta di ipoteca sulla casa per fornire di dote la figlia maggiore che si maritava, è riportato lo stato di famiglia Mazzola all'epoca: tra i vari componenti ci sono due figli maschi non maggiorenni, Giovanni, di anni venti, e Francesco, di quindici, mentre Zaccaria, ormai maggiorenne (cioè di più di 25 anni), aveva ormai lasciato la città, saldando la sua porzione di "ipoteca".
La guerra fra gli imperiali di Carlo V e i francesi di Francesco I, che devastava il nord Italia, si era nel frattempo avvicinata a Parma. Nel 1521, quindi, gli zii decisero in via precauzionale di mandare Francesco in provincia, a Viadana, assieme al garzone Girolamo Bedoli-Mazzola (che nel 1529 sposerà Caterina Elena Mazzola, figlia di Pier Ilario). Qui, riferisce il Vasari, dipinse "due tavole a tempera, una delle quali, dove è san Francesco che riceve le stimite e santa Chiara, fu posta nella chiesa de' frati de' Zoccoli, e l'altra, nella quale è uno sposalizio di santa Caterina, con molte figure, fu posta in S. Piero. Né creda niuno che queste siano opere da principiante e giovane, ma da maestro e vecchio".
La tavola del San Francesco è ormai perduta, mentre l'altra è stata riconosciuta nella cosiddetta Pala di Bardi, oggi conservata nella chiesa di Santa Maria Addolorata di Bardi.
La guerra si concluse alla fine del 1521 e il Vasari scrisse che "finita la guerra e tornato Francesco col cugino a Parma... fece in una tavola a olio la Nostra Donna col Figliuolo in collo, San Ieronimo da un lato e il beato Bernardino da Feltro nell'altro" (opera perduta). La vittoria sui francesi, dei quali venne respinto l'assedio il 21 dicembre 1521, fu poco dopo l'occasione per erigere una nuova chiesa in ringraziamento alla Vergine, dove Parmigianino contribuì poi alla decorazione: la Madonna della Steccata.
Gli affreschi in San Giovanni Evangelista
La città era adesso sicuramente tenuta dal commissario e governatore apostolico Francesco Guicciardini; poterono così riprendere i lavori nella chiesa di San Giovanni Evangelista dove, almeno dal 21 novembre 1522, è documentato Parmigianino al fianco del Correggio, di Francesco Maria Rondani e di Michelangelo Anselmi. Nella cupola Parmigianino dipinse almeno un putto al lato di uno dei pennacchi, più "malizioso e guizzante" di quelli correggeschi.
Si dedicò quindi alle cappelle laterali (prima, seconda e quarta cappella della navata sinistra), in cui si legge già una pennellata salda e sciolta, nonché una sensibilità atta a creare figure monumentali e venate di risvolti psicologici.
Nella prima cappella affrescò Sant'Agata e il carnefice, proiettato illusionisticamente verso l'osservatore, diversamente dalle Sante Lucia e Apollonia, che restano inserite in una nicchia semicircolare; mostrano attenzione alla maniera dell'Anselmi, un correggesco formatosi a Siena nello studio del Sodoma e del Beccafumi. Suoi sono anche il fregio e il sottostante Eterno con angeli, molto rovinato.
Nella seconda cappella affrescò i Due diaconi leggenti, il presunto San Vitale - o, forse, San Secondo -, i Putti e animali e il monocromo dipinto nel sottarco della cappella. Il cavallo impennato a fianco del San Secondo è in relazione con un particolare dell'affresco della Crocifissione eseguito due anni prima dal Pordenone nel duomo di Cremona, del quale tuttavia Parmigianino attenuò la gestualità esibita e violenta, ammorbidendola secondo un movimento più fluido delle figure.
La decorazione della quarta cappella era stata affidata il 27 febbraio 1515 agli zii Michele e Pier Ilario; l'insolvibilità del proprietario della cappella, Nicolò Zangrandi, aveva fatto rimandare i lavori, che poterono iniziare solo nel 1522. Già attribuiti al Parmigianino, solo recentemente la scoperta di disegni preparatori li ha fatti assegnare invece con relativa certezza a Michelangelo Anselmi.
Il successo in San Giovanni gli aprì le porte di nuove commissioni. Già il 21 novembre 1522 i fabbricieri del duomo di Parma firmarono un contratto coi suoi zii per la decorazione con quattro figure della crociera sopra l'altare. In quell'occasione egli è già definito "magister", malgrado la giovanissima età che richiedeva ancora la presenza dei tutori; venne pattuito un congruo compenso di 145 ducati d'oro (si pensi che a Correggio per l'intera cupola e le pertinenze erano stati accordati, il 3 novembre, 1000 ducati). Parmigianino, però, alla fine in Duomo non mise mai alla prova il proprio pennello.
Alla corte dei Sanvitale
Nel 1523 o, al più tardi, nella prima metà del 1524, prima della partenza per Roma, nel soffitto di una stanza della Rocca Sanvitale di Fontanellato, presso Parma, affrescò la cosiddetta "stufetta" (bagno privato) con quattordici lunette con episodi della favola ovidiana di Diana e Atteone, intramezzate da pennacchi in cui sono dipinti dodici putti; lo sfondo è dato da un pergolato a cui segue più in alto una siepe di rose, oltre la quale si affaccia il cielo; al centro del cielo è uno specchio rotondo recante la scritta RESPICE FINEM ("osserva la fine", inteso della storia).
Gli affreschi si compongono di quattro scene, con la Ninfa inseguita dai cacciatori, l'Atteone mutato in cervo, l'Atteone sbranato dai cani, e la Cerere con le spighe, in cui è forse rappresentata Paola Gonzaga, moglie del committente Galeazzo Sanvitale. È evidente il debito dovuto al Correggio della Camera di San Paolo e tuttavia il plasticismo pieno e naturalistico del suo maestro si ammorbidisce qui in soluzioni di più fluida e lieve stilizzazione.
Il mito di Atteone che, per aver sorpreso la dea Diana al bagno, viene da questa mutato in cervo ed è sbranato dai suoi stessi cani, è stato interpretato come una metafora del processo alchemico, dell'unione del principio maschile e femminile, ove il cacciatore Atteone, pur di appropriarsi del principio divino, la dea Diana, è disposto a mutarsi da predatore a preda e a morire.
La tavola del Ritratto di un collezionista è il suo primo esempio di ritratto, ma non è noto il nome dell'uomo, individuato come un collezionista dagli oggetti d'arte che vengono rappresentati nella tavola, e che s'impone per la forza espressiva della posa e per lo sguardo tagliente e arrogante. Ben riconoscibile è il Libro d'Ore Durazzo - manoscritto miniato dal concittadino Francesco Marmitta - che l'uomo reca nella mano.
Dello stesso periodo è anche il Ritratto di Galeazzo Sanvitale, opera di rappresentanza che coniuga un pungente realismo, spesso virtuosistico, con la sfarzosa rappresentazione degli status symbol del committente, dall'armatura scintillante all'abito elegantissimo, dai guanti da nobile alla medaglia tenuta in mano, che ricorda i suoi interessi culturali.
Preparativi per Roma
Nell'estate del 1524, cessata un'epidemia di peste, partì per Roma; scrive Vasari che "venuto in desiderio di veder Roma [...] disse l'animo e disiderio suo ai vecchi zii, ai quali parendo che non fusse cotal desiderio se non lodevole, dissero esser contenti, ma che sarebbe ben fatto che egli avesse portato seco qualche cosa di sua mano che gli facesse entratura a que' signori et agl'artefici della professione; il qual consiglio non dispiacendo a Francesco, fece tre quadri, due piccoli et uno assai grande, nel quale fece la Nostra Donna col Figliuolo in collo che toglie di grembo a un Angelo alcuni frutti et un vecchio con le braccia piene di peli, fatto con arte e giudizio e vagamente colorito [...]. Finite queste opere [...] accompagnato da uno de' suoi zii, si condusse a Roma".
Delle tre tavole citate da Vasari, si sono riconosciute la Sacra Famiglia con angeli, oggi al Museo del Prado e il suo famoso Autoritratto entro uno specchio convesso, di cui fu Vasari impressionato dall'invenzione del giovane artista: oltre la bellezza "angelica" del pittore e la novità suggestiva dell'invenzione, vi si può cogliere una manifestazione della nuova sensibilità manieristica, grazie alla presenza della visione anamorfica della mano deformata dalla forma dello specchio.
Può darsi che gli stessi Sanvitale incoraggiarono e favorirono il viaggio: Paola era infatti sorella di Giulia Gonzaga, la moglie di Vespasiano Colonna, e cognata quindi di Vittoria Colonna, la regina dei circoli intellettuali romani. Inoltre il cardinale Innocenzo Cybo, vicinissimo al papa, avrebbe dovuto presiedere al battesimo del figlio di Galeazzo e Paola nel settembre 1523: uno dei primi lavori a Roma Parmigianino lo ottenne infatti proprio dal fratello del cardinale, Lorenzo Cybo.
Nel viaggio a Roma Francesco fu accompagnato dallo zio Pier Ilario e forse, passando per l'Umbria, si unì ai due anche suo fratello Zaccaria, attivo a Perugia e altrove, e la cui firma si trova tra quelle degli artisti nelle "grotte" della Domus Aurea.
A Roma
Arrivato a Roma, fece dono delle sue opere a papa Clemente VII, ma non ottenne commissioni dirette dal pontefice, nonostante la promessa di affidargli la Sala dei Pontefici nell'Appartamento Borgia. Lavorò piuttosto per personaggi della corte pontificia, come Lorenzo Cybo, capitano delle guardie pontificie, che ritrasse verso il 1524. In questa opera, oggi a Copenaghen, confermò la sua grande acutezza d'individuazione psicologica.
A Roma studiò soprattutto Raffaello, del quale veniva indicato spesso come "novello" successore, come ricorda Vasari: "lo spirito del qual Raffaello si diceva poi esser passato nel corpo di Francesco, per vedersi quel giovane nell'arte raro e ne' costumi gentile e grazioso [... e] s'ingegnava d'immitarlo in tutte le cose, ma soprattutto nella pittura; il quale studio non fu invano, perché molti quadretti che fece in Roma, la maggior parte de' quali vennero poi in mano del cardinal Ippolito de' Medici, erano veramente maravigliosi". Entrò nei circoli dei discepoli di Raffaello attivi ai Palazzi Vaticani dopo la morte del maestro, conoscendo Perin del Vaga, Baldassarre Peruzzi, Polidoro da Caravaggio, oltre a Sebastiano del Piombo e Rosso Fiorentino. Da quest'ultimo, che lavorava per lo stesso editore di stampe tratte da loro disegni, Baverio dei Carocci, dovette trarre feconde ispirazioni per la sua pittura futura, con l'esasperato allungamento delle figure e la pittura a tocchi rapidi, non fusi, che saranno tenute presenti nelle successive opere del Parmigianino. Degli studi di Raffaello e dell'arte classica restano vari disegni, come una testa del Laocoonte a Chatsworth o uno schizzo della Scuola di Atene, alla Royal Library del Castello di Windsor.
La conta delle opere create nel breve soggiorno romano è un argomento assai controverso nella critica. Molti lavori sono infatti riferiti ora al 1524-1527, ora al successivo periodo bolognese (fino al 1530). Ad esempio, la Sacra Famiglia con san Giovannino del Museo di Capodimonte è il più raffaellesco e classico dei suoi dipinti, con richiami alla Madonna del Diadema blu della bottega di Raffaello, ma oggi si tende in genere ad identificarlo con una delle opere a "guazzo" che Vasari ricordò come eseguite appena arrivato a Bologna.
Sicuramente a Roma eseguì la Visione di san Girolamo, una monumentale pala d'altare che avrebbe dovuto essere al centro di un trittico, commissionato da Maria Bufalini di Città di Castello. La tavola, dipinta nel 1527, fu preceduta da un intenso lavoro preparatorio e fu interrotta per il sopraggiungere dei Lanzichenecchi durante il Sacco di Roma. Originalissima e volutamente spregiudicata è la composizione che si assesta su piani verticali in sequenza, in rapida successione, senza interesse a definire uno spazio geometricamente misurabile, ma che al contrario appare innaturale e vertiginoso. Il Battista in primo piano, compiendo una torsione di michelangiolesca memoria, indirizza lo spettatore alla visione della Vergine col Bambino più in alto, illuminata da una luce divina dietro l'aureola che ricorda le epifanie divine del Correggio. San Girolamo addormentato ha evocato col suo sogno la visione e si trova scorciato su un prato a destra, in una posa che ricorda la Venere di Correggio. Ma rispetto ai modelli resta originalissimo il rapporto tra le figure, l'allungamento delle proporzioni, l'uso espressivo del colore e l'estrema ricercatezza nei dettagli.
Il Sacco
Il 6 maggio 1527 i Lanzichenecchi giunsero dunque in città.
Nonostante i drammatici avvenimenti del Sacco, inizialmente il pittore restò in città dove, secondo la cronaca che fornisce Vasari, trovò la protezione di alcuni soldati tedeschi folgorati dalla visione della pala a cui stava lavorando. Essi gli richiesero disegni e acquerelli come taglia, ma poi, sentendosi minacciato da altre truppe, fu spedito in tutta fretta in Emilia dallo zio Pier Ilario, che si trovava con lui, il quale si prese cura, prima di lasciare a sua volta la città, di affidare la Visione di san Girolamo ai frati di Santa Maria della Pace.
Studi recenti ipotizzano che la spavalda avventura del Parmigianino fosse stata in realtà resa possibile dal rifugio trovato presso gli accoglienti Colonna, filoimperiali, proprio in virtù delle sue conoscenze coi Sanvitale a essi imparentati.
Il periodo bolognese
Giunse nel giugno 1527 in Emilia ma, invece di tornare a casa, decise di stabilirsi a Bologna, che a quell'epoca era la seconda più popolosa città dello Stato Pontificio: probabilmente la fama acquistata nella Città Eterna lo spinse a cercare fortuna in un altro grande centro, piuttosto che nella propria città. Vi rimase quasi quattro anni, durante i quali raggiunse la maggiore età, emancipandosi completamente dagli zii.
La sua prima opera bolognese fu, secondo Vasari, il San Rocco e un donatore per la basilica di San Petronio. In quest'opera, in linea con la Visione di san Girolamo, aggiunse una carica sentimentale - gli occhi al cielo del Santo, lo sguardo compuntamente insistito del donatore, persino la partecipazione emotiva del cane - che resta come bloccata e irrisolta nell'enfasi ricercata della gestualità di san Rocco. Era ancora poco frequente trovare, nella tradizione italiana precedente la Controriforma, la rappresentazione di un unico santo che esprimesse la mediazione della esigenze devote di un offerente con il cielo.
Dalla nota di Vasari - "fece poi per l'Albio, medico parmigiano, una conversione di san Paulo con molte figure e con un paese, che fu cosa rarissima" - si è individuata la tela della Conversione di san Paolo di Vienna, in passato assegnata tuttavia a Nicolò dell'Abate. Esiste infatti un disegno che riproduce con poche variazioni la tela e, se il riferimento alla Cacciata di Eliodoro dal tempio di Raffaello, nelle Stanze vaticane, è chiaro, la figura antinaturalistica del cavallo, dal collo gonfio e la testa piccola e sottile, le redini ridotte a un filamento capriccioso, la gualdrappa setosa, le vesti leggere del santo, le lumeggiature dorate della superficie, danno al dipinto il segno di un'invenzione decorativa, di un'astrazione deformata e compiaciuta.
Intorno al 1528 risale anche la composizione dell'Adorazione dei Magi di Taggia. Opera cardine del periodo bolognese è però la Madonna di Santa Margherita, dipinta tra il 1529 e il 1530. In questo lavoro le figure allungate ed estremamente eleganti hanno una varietà di pose, gesti e sguardi che generano un moto circolare per l'occhio dello spettatore, incitato da linee di forza a spostarsi da un capo all'altro della pala, secondo una tecnica già usata da Correggio. Il segno è veloce, con tocchi rapidi che restano visibili e danno alla pittura un effetto vibrante di estrema modernità.
Notevole è anche la Madonna della Rosa, opera di estrema raffinatezza, dal sapore quasi pagano, commissionata da Pietro Aretino e donata poi a papa Clemente VII in occasione della sua visita in città per l'incoronazione di Carlo V. La veste trasparente della Madonna, la posa del Bambino dai capelli inanellati e con un bracciale di corallo al polso, gli sbuffi della tenda, danno infatti al dipinto un'essenziale impronta profana, persino sensuale. Lo comprese bene anche Ireneo Affò, per il quale infatti l'opera avrebbe dovuto rappresentare una Venere e Cupido, ma l'ipotesi viene smentita da tutti i disegni preparatori. In realtà i temi, religiosi o profani che siano, devono soggiacere all'irreversibile indirizzo stilistico scelto dal Parmigianino: eleganza decorativa, preziosità formale e ricercato virtuosismo compositivo.
In definitiva, i risultati del periodo bolognese sul piano economico e sociale furono sostanzialmente poco concludenti: le commissioni furono defilate (un convento femminile, alcuni borghesi) e i nuovi tentativi di fare breccia nel papa andarono a vuoto. L'occasione per un salto di qualità arrivò piuttosto dall'imperatore, che, come ci informa ancora Vasari, "Francesco, andando talora a vederlo mangiare, fece senza ritrarlo l'immagine di esso Cesare a olio in un quadro grandissimo, et in quello dipinse la Fama che lo coronava di lauro, et un fanciullo in forma d'un Ercole piccolino che gli porgeva il mondo quasi dandogliene il dominio". In quest'opera, forse oggi in una collezione privata statunitense (ma forse solo copia dell'originale perduto), la Fama, che può meglio interpretarsi come la Gloria o una Vittoria alata, sospende un ramoscello di palma - simbolo delle conquiste spirituali - sopra il capo dell'imperatore e uno di alloro - simbolo delle conquiste materiali - sul globo retto dal putto. Alla fine si trattò di una nuova occasione mancata: così complicato e ricco di simboli, il ritratto non dovette piacere all'augusto, che dimostrò piuttosto di apprezzare l'aulica celebrazione di Tiziano, suo pittore ufficiale di lì a qualche anno.
A partire da quegli anni, per arrotondare, praticò sistematicamente il disegno e l'incisione, facendo pubblicare numerosi suoi lavori che così poterono essere conosciuti su vasta scala.
Il ritorno a Parma
Tra l'aprile del 1530 e il maggio del 1531 l'artista, che finora a Bologna "molto esperimentatosi nell'arte, senza aver fatto però acquisto nessuno di facultà, ma solo d'amici" (Vasari), prese contatti sempre più fitti con i fabbricieri della Madonna della Steccata nella sua città natale, per un'impresa pittorica, finalmente, di rilievo. Non è un caso che nel 1530 Correggio avesse lasciato la città, insoddisfatto per le critiche mosse all'audacia del suo capolavoro, la cupola del Duomo di Parma. Il santuario, sorto come ringraziamento alla Madonna per la vittoria contro i Francesi del 1521, era retto da una confraternita dedita a varie attività, tra cui soprattutto quella di provvedere di dote le fanciulle povere ma oneste. Il contratto con l'artista venne firmato il 10 maggio 1531 e prevedeva la decorazione ad affresco dell'abside nella cappella maggiore e del sottarco sul presbiterio, per cui venne scelto il tema delle Vergini sagge e vergini stolte, particolarmente adatto all'attività di sostenimento nuziale della confraternita. Venne pattuito un compenso di 400 scudi d'oro e un termine dei lavori entro diciotto mesi.
Illuminanti sulla sua condizione in quegli anni sono i vari traslochi. Intanto si rileva come non abiti più con la famiglia, né nelle vicinanze, non lontano dal duomo: con i Mazzola, tanto presenti nella prima parte della sua biografia, sembra infatti aver rotto decisamente i ponti, ma nessun documento spiega questa vicenda privata; scartate le ipotesi di una controversia economica (non ve ne è traccia negli archivi di notai e avvocati parmensi) o politica (i Mazzola erano artigiani, mai presenti nella gestione del potere cittadino), si trattò forse di uno "scandalo", magari la pratica dell'alchimia di cui parla Vasari, o magari, come suggeriscono alcuni indizi, la scoperta della sua omosessualità.
Nel novembre del 1532 risultava residente in Sant'Alessandro, praticamente davanti alla Steccata, dove doveva lavorare all'epoca alacremente. Nel 1533 era in Sant'Antonino e l'anno successivo invece si allontanò bruscamente, stabilendosi nella vicinia di Santa Cecilia, nell'Oltretorrente, nei quartieri artigianali con case più modeste e dagli affitti conseguentemente più bassi. La nuova dimora (una casa con corte e giardino che costava trenta ducati all'anno) sembra indicare la volontà precisa di allontanarsi dalla Steccata, segnando simbolicamente l'abbandono dell'impresa e una crisi nei rapporti con parenti, amici e protettori fino ad allora solidali.
Il 6 novembre 1532 l'artista aveva infatti ottenuto una prima proroga sul completamento dei lavori, seguita nel 1535 da un'ingiunzione a ritirarsi dall'impresa che, per le sue rimostranze, venne trasformata in una nuova proroga, al settembre 1536.
Risalgono a quegli anni alcune opere di piccolo e medio formato, per committenti privati, necessarie al sostentamento: Ritratto di giovane donna detto la Schiava turca, tra i più espressivi della sua produzione, la Minerva e altre. Straordinario è il ritratto della cosiddetta Antea, un'apparizione improvvisa e inquietante, dal naturalismo solo apparente, negato dall'ingrandimento "allucinante di tutto il braccio e la spalla destra, su cui la pelle di martora pesa a dismisura, la deformazione abnorme che codesta spaurita, dall'aria consunta e rassegnata, ostenta come un penoso sfallo di natura" (Bologna).
Mentre i rapporti con i confratelli della Steccata peggioravano, capolavori quali la Madonna di San Zaccaria o il Cupido che fabbrica l'arco sembrano prodotti per ingraziarsi amici e protettori durante la controversia legale seguente. La prima, creata prima del 1533, sembra infatti destinata a coprire le spese di rappresentanza legale presso un avvocato bolognese; il secondo è invece dipinto per l'amico Francesco Baiardi che, con l'architetto Damiano da Pleta, fornì la fideiussione, garantendo per l'artista quando riscosse il secondo anticipo di 100 scudi nel novembre 1532.
Il 3 giugno 1538 i fabbricieri della Steccata intimarono la restituzione di 225 scudi per inadempienza. Ottenuta una nuova proroga fino al 26 agosto 1539, e non conclusi ancora i lavori, la Confraternita adì alle vie legali e fece incarcerare il Parmigianino per quasi due mesi. Dopo la scarcerazione, il pittore lasciò Parma per Casalmaggiore. Nell'atto notarile del 19 dicembre 1539 si determina che "maestro Francesco Mazzolo pictore non si abbia più per modo alcuno intromettersi né impaciare de la pictura de la Capella grande de la giesa nova de la Madonna de la Steccata", affidando poi il disegno dell'opera a Giulio Romano che tuttavia, raggiunto da una lettera e da un minaccioso messo "amichissimo" del Parmigianino, declinò l'invito, nonostante l'iniziale assenso.
Capolavoro di quegli anni è la Madonna dal collo lungo, lasciata incompleta alla sua partenza da Parma. In essa, creata per la cappella della sorella del cavalier Baiardo, le forme allungate e sinuose, l'asimmetria, l'anticlassicismo giungono a un livello tale da costituire una decisa rottura degli equilibri del Rinascimento, che ne fanno uno dei dipinti più importanti e rappresentativi del Manierismo italiano.
L'ultimo rifugio
Casalmaggiore, Santuario della Madonna della Fontana, luogo di sepoltura del Parmigianino
La scarcerazione è databile ai primi mesi del 1540 e una tradizione locale, non confermata da documenti, riporta come l'artista, prima di fuggire, distrusse quel poco di suo che era abbozzato nell'abside della Steccata, offeso dall'onta dei confratelli. Se ne fuggì quindi in tutta fretta a Casalmaggiore, cittadina appena al di fuori dei confini dello Stato parmense, oggi in provincia di Cremona. Non ebbe tempo di trattenersi a San Secondo Parmense, alla corte dei Rossi di San Secondo, dove invece dovette essere stato ospite qualche anno prima, realizzando un poderoso Ritratto di Pier Maria Rossi di San Secondo e forse abbozzando soltanto quello della moglie, completato poi da qualcun altro.
Qui nell'aprile scrisse la famosa lettera a Giulio Romano, che lo esortava a rinunciare all'incarico di fornire disegni per l'abside della Steccata, in quanto tale lavoro poteva completarlo benissimo lui e ottenere quei trecento scudi che gli sarebbero spettati, in nome di una solidarietà tra artisti. Fece accompagnare la missiva da un suo fidato "amichissimo", il quale, come ebbe e scrivere Giulio Romano stesso nella sua lettera di rifiuto dell'incarico ai confratelli della Steccata, era "molto arrogante con una gran chiacchiera et parlava per geroglifici et molto devoto del detto Francesco et sviscerato et meglio c'uno advocato sapeva difendere le sue ragioni et confonder quelle de le signorie vostre. In modo a quello c'io potei comprendere par che ne poteria sequir scandalo, la qual cosa molto aborisco maximamente perché in questo guadagnuzzo non li ha da esser mia ricchezza..."
Per sopravvivere l'artista dipinse per la chiesa locale una Pala, oggi a Dresda, dove domina un irreale silenzio tra i partecipanti e con colori spenti e irreali, che venne completata, compresi gli accurati studi su carta, entro i cinque mesi scarsi che passò nella cittadina. Stando a quanto riporta Vasari, ebbe tempo anche di dipingere una Lucrezia romana, opera dalla bellezza della statuaria classica, oggi a Napoli.
Il 5 agosto 1540, infatti, durante l'estate che si può immaginare torrida, l'artista si ammalò, forse di malaria, e fece testamento, lasciando eredi i suoi tre servitori ancora minorenni, che erano forse anche suoi aiutanti nell'arte, e 100 scudi alla sorella Ginevra.
Preso da "una febbre grave e da un flusso crudele" (Vasari), nel giro di qualche settimana morì, "et a questo modo pose fine ai travagli di questo mondo, che non fu mai conosciuto da lui se non pieno di fastidii e di noie".
Fu sepolto nella chiesa dei Serviti nei dintorni di Casalmaggiore, nudo con una croce d'arcipresso sul petto in alto, come da lui disposto, secondo l'uso francescano. Dal 1846 ivi è ricordato da una lapide, posta nella seconda cappella a sinistra.
Fonte: Wikipedia
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Re: Arte del Rinascimento
Botticelli record da Sotheby's: oltre 92 milioni di dollari
Primato 'Old Master' per casa aste, secondo dopo Salvator Mundi
Un record per un "grande maestro" da Sotheby's: il rarissimo "Ritratto di giovane con tondo di santo" di Sandro Botticelli, e' stato venduto per oltre 92 milioni di dollari inclusi i diritti d'asta, diventando il secondo quadro di epoca rinascimentale e barocca piu' costoso della storia dopo il Salvator Mundi di Leonardo. "E' la quotazione piu' alta raggiunta da un'opera di un 'Old Master' da Sotheby's", ha annunciato Oliver Barker, il direttore di Sotheby's Europe, dopo aver finalizzato, battendo il martello sul podio, il prezzo del dipinto.
Acquistato da un cliente al telefono con Lillia Sitnika, capo del desk Russia di Sotheby's a Londra, il Botticelli era stato affidato alla casa d'aste dal miliardario Sheldon Solow, uno di grandi costruttori di grattacieli di New York, morto lo scorso novembre a 92 anni. Solow lo aveva acquistato circa 40 anni fa per poco piu' di un milione di dollari, una frazione della nuova valutazione, e donato qualche anno fa alla sua fondazione privata: un escamotage perfettamente legale che consentira' ai suoi eredi di sfuggire a una salata tassa sul capital gain.
Il quadro raffigura un giovane nobile che secondo gli esperti potrebbe essere un membro della famiglia Medici, i mecenati di Botticelli. Il giovane regge in mano un tondo ligneo dipinto nello stile dell'artista senese Bartolommeo Bulgarini. Quadri di Botticelli ancora sul mercato sono rarissimi: quello venduto oggi era stato esposto nel corso degli anni da grandi musei come il Metropolitan di New York, la National Gallery di Londra e la National Gallery di Washington.
Il giovane di Sotheby's ha superato di 12 milioni di dollari il massimo della stima della vigilia e sbaragliato il record precedente per l'artista stabilito con la "Madonna Rockefeller", pagata 10,3 milioni di dollari nel 2010 da Christie's. Il quadro e' diventato anche il secondo quadro di un "Old Master" piu' pagato della storia a un'asta dopo il "Salvator Mundi" attribuito a Leonardo: battuto per 450 milioni di dollari da Christie's nel 2017 durante una vendita di arte contemporanea. Se il Botticelli e' stata la star dell'asta, altre opere del catalogo non hanno dato i risultati sperati: un piccolo Rembrandt ("Abramo e gli Angeli") appartenente al trustee del Metropolitan Mark Fisch e stimato 20-30 milioni di dollari, e' stato ritirato alla vigilia della vendita. Sono state offerte nella stessa sessione anche sei opere del museo Albright-Knox di Buffalo, quattro delle quali hanno trovato un compratore: tra queste un pannello a rilievo di Luca della Robbia venduto per oltre due milioni di dollari, il doppio della valutazione della vigilia.
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Primato 'Old Master' per casa aste, secondo dopo Salvator Mundi
Un record per un "grande maestro" da Sotheby's: il rarissimo "Ritratto di giovane con tondo di santo" di Sandro Botticelli, e' stato venduto per oltre 92 milioni di dollari inclusi i diritti d'asta, diventando il secondo quadro di epoca rinascimentale e barocca piu' costoso della storia dopo il Salvator Mundi di Leonardo. "E' la quotazione piu' alta raggiunta da un'opera di un 'Old Master' da Sotheby's", ha annunciato Oliver Barker, il direttore di Sotheby's Europe, dopo aver finalizzato, battendo il martello sul podio, il prezzo del dipinto.
Acquistato da un cliente al telefono con Lillia Sitnika, capo del desk Russia di Sotheby's a Londra, il Botticelli era stato affidato alla casa d'aste dal miliardario Sheldon Solow, uno di grandi costruttori di grattacieli di New York, morto lo scorso novembre a 92 anni. Solow lo aveva acquistato circa 40 anni fa per poco piu' di un milione di dollari, una frazione della nuova valutazione, e donato qualche anno fa alla sua fondazione privata: un escamotage perfettamente legale che consentira' ai suoi eredi di sfuggire a una salata tassa sul capital gain.
Il quadro raffigura un giovane nobile che secondo gli esperti potrebbe essere un membro della famiglia Medici, i mecenati di Botticelli. Il giovane regge in mano un tondo ligneo dipinto nello stile dell'artista senese Bartolommeo Bulgarini. Quadri di Botticelli ancora sul mercato sono rarissimi: quello venduto oggi era stato esposto nel corso degli anni da grandi musei come il Metropolitan di New York, la National Gallery di Londra e la National Gallery di Washington.
Il giovane di Sotheby's ha superato di 12 milioni di dollari il massimo della stima della vigilia e sbaragliato il record precedente per l'artista stabilito con la "Madonna Rockefeller", pagata 10,3 milioni di dollari nel 2010 da Christie's. Il quadro e' diventato anche il secondo quadro di un "Old Master" piu' pagato della storia a un'asta dopo il "Salvator Mundi" attribuito a Leonardo: battuto per 450 milioni di dollari da Christie's nel 2017 durante una vendita di arte contemporanea. Se il Botticelli e' stata la star dell'asta, altre opere del catalogo non hanno dato i risultati sperati: un piccolo Rembrandt ("Abramo e gli Angeli") appartenente al trustee del Metropolitan Mark Fisch e stimato 20-30 milioni di dollari, e' stato ritirato alla vigilia della vendita. Sono state offerte nella stessa sessione anche sei opere del museo Albright-Knox di Buffalo, quattro delle quali hanno trovato un compratore: tra queste un pannello a rilievo di Luca della Robbia venduto per oltre due milioni di dollari, il doppio della valutazione della vigilia.
ansa.it
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