Enya è il diminutivo di Eithne Ni Bhraonain, cognome che in gaelico significa "figlia di Brennan". E il gaelico è la prima lingua di questa formidabile compositrice, nata a Gweedore, Donegal, nel cuore d'Irlanda, in una famiglia di musicisti. La sua era una missione difficile: esportare la cultura della sua isola, il mistero dei celti, la magia di una cultura popolare fatta di miti arcaici e sacralità. Enya ci è riuscita, a partire da quando, ancora diciottenne, ha iniziato a cantare insieme ai tre fratelli nella "band di famiglia", i Clannad, una delle istituzioni del folk irlandese con Chieftains e Pogues. Alla metà degli anni Ottanta, quando la Bbc le chiede di scrivere un brano per un documentario a puntate sui Celti, lei ha già lasciato il gruppo. Alla tv inglese manda una breve composizione. La chiamano e le affidano tutti i 70 minuti della serie. "The Celts era in realtà la mia seconda esperienza con una colonna sonora - racconta -. Avevo già scritto le musiche per 'The frog prince', un film prodotto da David Putnam. Ma quella fu la conferma di quanto la mia immaginazione visiva andasse di pari passo con la composizione musicale".
Dei 70 minuti di musica della colonna sonora per la Bbc, 41 (opportunamente rielaborati e riarrangiati) vengono ripresi su Enya, il disco d'esordio (poi ristampato come The Celts), che scala subito le classifiche irlandesi arrivando anche al numero 1. L'artista irlandese rivela tutto il suo talento poliedrico, suonando tutti gli strumenti e mettendo in mostra la purezza cristallina del suo canto. La title track, epica e immediata al contempo con i suoi tamburi marziali e il suo delicato refrain, è il singolo trainante di un disco composto prevalentemente di brevi piece, incentrate quasi interamente sulle storie e sulle leggende celtiche. Uno dei capisaldi dell'album è il ricorso a fiabe infantili, seppur stravolte e trasfigurate in una serie di pannelli astratti: "Boadicea", ad esempio, si snoda su un incedere lento, quasi liturgico, con il sussurro di Enya avvolto in cupi strati di synth; "Fairytale", sublimazione del mito di Midir, re delle Fate, e della sua passione per la principessa Etain, è uno strumentale di grande impatto melodico, in cui i gorgheggi della cantante sono immersi in un magma di tastiere, sibili e bisibigli lontani. E' invece dedicata al regista Ridely Scott, "Aldebaran" (dall'arabo Al-dabaran: colui che segue) prende il nome della stella alfa della costellazione Taurus: è un viaggio mistico, costruito attorno agli arpeggi fatati delle chitarre e alla sovrapposizione delle voci (in gaelico), che creano un senso di siderea quiete. Altre volte è il ritmo a prendere il sopravvento, come nella "March of the Celts", dove l'enfasi sulle percussioni si sposa a un ricco arrangiamento per pianoforte, campane, archi e sintetizzatori. Quando però Enya rallenta ulteriormente il suo carillon, si approda su lande magiche e misteriose, come quelle di "The Sun In The Stream" (con pianoforte e flauti in evidenza), "Deireadh an Tuath" (breve interludio, con un canto dal sapore arcaico, in gaelico puro) e "Portrait" (malinconica aria per pianoforte, archi e synth). A elevare il clima di austera solennità del disco provvedono "I Want Tomorrow", con un canto (stavolta in inglese) assecondato dagli archi e da un assolo straniante di chitarra, e il madrigale rinascimentale di "To Go Beyond" (ripreso anche nell'ultima traccia), con tenui melodie di piano e, in seguito, di sintetizzatori e cori/echi a far da contrappunto al canto.
L'importante collaborazione con la connazionale Sinead O'Connor, nell'album "The Lion and the Cobra" (in cui legge in irlandese un passo della Bibbia nella canzone "Never Get Old"), è il preludio alla definitiva consacrazione di Enya, che arriva nel 1988 con il suo grande capolavoro, Watermark. Trascinato dal ritmo selvaggio di "Orinoco Flow" (incredibile connubio tra melodie celtiche e percussività africane, rimasto a tutt'oggi il suo brano più celebre), il disco spopola in tutto il mondo, con oltre sessanta milioni di copie vendute, lanciando definitivamente l'Enya-sound fuori dai confini irlandesi. Ma sono tanti i brani che contribuiscono alla magia del disco. Basti pensare all'iniziale title track, un breve strumentale pianistico d'infinita tenerezza, o a quella sorta di salmo religioso che è "On Your Shore", con un organo solenne in primo piano, o ancora alla litania medievale di "Cursum Perficio", che si snoda via via più fremente in un crescendo inquietante di cori gotici e synth. L'aspetto più trascendente della musica di Enya si sublima nella cantilena al ralenti di "Longships" e nelle atmosfere incantate di "Storms in Africa", dove i tamburi di Chris Hughes danno nerbo a una sublime melodia. Un'atmosfera estatica che si fa particolarmente scura in "Evening Falls", grazia a una singolare commistione di sintetizzatori "ambient" e frasi di organo da chiesa. La conclusiva "Na Laetha Geal M'Oige", invece, con l'intervento del folksinger irlandese Davy Spillane alla cornamusa su un canovaccio sintetico, sintetizza la perfetta fusione di antico e moderno nel pentagramma di Enya.
Nel 1991 esce Shepherd Moons, altra opera elegante e suggestiva, che conferma Enya nei panni della regina del filone celtico-new age. A introdurlo, ancora una volta un breve tema strumentale, la dolce title track. I pezzi forti del disco, però, sono soprattutto il valzer trasognato del singolo "Caribbean Blue" (che aggiorna gli esperimenti sul ritmo di "Orinoco Flow"), l'austera elegia di "Marble Halls" (rivisitazione di un traditional irlandese), l'epica marcia di "Ebudae" e la commovente aria per pianoforte di "Lothlorien". Ma a brillare sono anche episodi "minori", come la piece medievaleggiante di "After Ventus", un altro forbito saggio del suo peculiarissimo canto, e la limpida melodia di "Book Of Days", che si dipana su un tessuto elettronico d'alta classe. La strumentazione è sempre molto ricca e alterna sapientemente la freddezza del synth alla magia di strumenti tipicamente folk, come arpa e violoncello.
L'album conferma tutta la classe di Enya, anche se rispetto a Watermark, appare forse meno dirompente sul piano melodico.
Il successivo Memory of Trees, lanciato dal singolo "Anywhere is", viene persino premiato con un Grammy Award nel 1996. Complessivamente, però, si rivela un disco minore nella produzione di Enya, fatte salve alcune rimarchevoli eccezioni (il requiem scandito da tamburi ossessivi di "Pax Deorum", l'eterea "China Roses", impreziosita da un arrangiamento neoclassico per clavicembalo e violini).
Cullandosi in qualche barocchismo di troppo e abusando un po' delle tecniche di produzione, Enya compie qualche passo indietro rispetto al fulminante avvio di carriera.
"La mia base è sempre la musica celtica - spiega Enya - nella quale ogni tanto si insinuano la classica e il pop. Parto sempre dalla melodia e mi lascio trasportare alla ricerca del modo migliore per esprimerla. Questo ha portato allo sviluppo delle mie sonorità, anche se in realtà non ho delle idee preconfezionate quando sono in studio. Ho solo una tela bianca sulla quale dipingere. Può venire fuori di tutto". Molte delle canzoni di Enya sono in gaelico, la lingua di famiglia. "Oggi in Irlanda, a scuola si impara solo l'inglese - racconta -. Vent'anni fa ci fu un abbandono di massa del gaelico, che veniva visto come qualcosa che ci separava dal mondo. Così sono rimaste poche comunità a parlarlo ancora. Ma quando torno a casa mia lo parlo abitualmente. E oggi c'è una ritrovata fierezza di essere irlandesi. Il mondo parla della nostra musica, dell'arte, della letteratura. E gli irlandesi si sentono considerati. Sono molto felice di questa attenzione, anche se credo che sia in parte frutto di una moda".