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John Wick: la saga con Keanu Reeves ha superato ufficialmente quota 1 miliardo di dollari
Grazie agli incassi del Capitolo 4, la saga di John Wick ha ufficialmente superato quota 1 miliardo di dollari a livello mondiale.
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La saga di John Wick ha ufficialmente superato quota 1 miliardo di dollari ai box office mondiali.
I film con star Keanu Reeves hanno raggiunto l'ambito traguardo grazie al quarto capitolo delle avventure dell'ex killer su commissione.
I dati degli incassi
John Wick 4 ha ottenuto, fino a questo momento, 425 milioni di dollari. Il film è quello con i migliori incassi del franchise e, al tempo stesso, il più costoso con un budget di oltre 100 milioni di dollari.
La saga di John Wick è una delle poche ad aver progressivamente aumentato i propri incassi nel corso degli anni.
Il primo film aveva ottenuto 86 milioni di dollari nel 2014. Il secondo aveva raggiunto quota 174,3 milioni. Il terzo capitolo della storia di John Wick, intitolato Parabellum, aveva quindi incassato 328,3 milioni di dollari a livello globale.
Le dichiarazioni
Joe Drake, a capo di Lionsgate Motion Picture Group, ha dichiarato: "Questo traguardo è una testimonianza dell'incredibile lavoro compiuto da Chad Stahelski e Keanu Reeves, in collaborazione con Basil Iwanyk ed Erica Lee, che hanno stabilito come propria missione il superarsi con ogni film di questo franchise. Non potremmo essere più grati nei confronti degli spettatori globali per averci dato questo incredibile risultato".
Fonte: MoviePlayer.It
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La saga di John Wick ha ufficialmente superato quota 1 miliardo di dollari ai box office mondiali.
I film con star Keanu Reeves hanno raggiunto l'ambito traguardo grazie al quarto capitolo delle avventure dell'ex killer su commissione.
I dati degli incassi
John Wick 4 ha ottenuto, fino a questo momento, 425 milioni di dollari. Il film è quello con i migliori incassi del franchise e, al tempo stesso, il più costoso con un budget di oltre 100 milioni di dollari.
La saga di John Wick è una delle poche ad aver progressivamente aumentato i propri incassi nel corso degli anni.
Il primo film aveva ottenuto 86 milioni di dollari nel 2014. Il secondo aveva raggiunto quota 174,3 milioni. Il terzo capitolo della storia di John Wick, intitolato Parabellum, aveva quindi incassato 328,3 milioni di dollari a livello globale.
Le dichiarazioni
Joe Drake, a capo di Lionsgate Motion Picture Group, ha dichiarato: "Questo traguardo è una testimonianza dell'incredibile lavoro compiuto da Chad Stahelski e Keanu Reeves, in collaborazione con Basil Iwanyk ed Erica Lee, che hanno stabilito come propria missione il superarsi con ogni film di questo franchise. Non potremmo essere più grati nei confronti degli spettatori globali per averci dato questo incredibile risultato".
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L'Organizzazione è ciò che distingue i Dodo dalle bestie! By la vostra APUMA sempre qui!
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Salva una Pianta, mangia un Vegano!
Un Mega Bacio alla mia cara Hunterus Heroicus KIM, Mishamiga in Winchester!
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John Wick, la saga con Keanu Reeves si prepara a rivoluzionare i premi Oscar. Ecco le ultime sorprendenti novità
Il franchise nato nel 2014 potrebbe portare ad una sorprendente novità nelle prossime edizioni dei premi.
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John Wick, l’amato franchise che vede Keanu Reeves nei panni dell’inossidabile killer, negli ultimi anni ha avuto il merito di riportare in auge presso il grande pubblico il cinema d’azione. La saga, giunta ormai al suo quarto capitolo, si è distinta per la grande creatività delle coreografie dei combattimenti, al punto da aver ravvivato in maniera importante il discorso – sempre più in voga negli ultimi anni – circa l’istituzione di un premio Oscar specifico per il Miglior stunt.
I tempi sembrano ormai maturi, e mai come oggi tale riconoscimento sembra pronto ad essere ufficialmente istituito dall’Academy. Tra i maggiori promotori dell’iniziativa vi è Chad Stahelski, stunt man di lunghissima esperienza affermatosi negli ultimi anni tra i più apprezzati registi di film d’azione proprio grazie alla saga di John Wick. Stahelski, negli anni, si è fatto promotore del dialogo tra le parti per avviare il processo per la creazione del nuovo riconoscimento, ed ora sembra che gli ingranaggi della grande macchina organizzativa e burocratica hollywoodiana si siano finalmente sbloccati.
In una recente intervista è stato infatti lo stesso regista di John Wick 4 ad annunciare come le conversazioni con l’Academy per l’istituzione di un premio Oscar specifico per la categoria degli stunt siano attualmente in corso, lasciando trapelare un malcelato ottimismo per la buona riuscita dell’iniziativa:
"Abbiamo incontrato i membri dell’Academy e abbiamo avuto queste conversazioni, e, ad essere onesti, sono state incredibilmente positive ed istruttive. Penso che, per la prima volta, abbiamo fatto il primo vero passo in avanti in questa direzione."
Stahelski ha aggiunto inoltre come, a suo modo di vedere, l’ufficializzazione del riconoscimento per gli stunt possa arrivare già entro le due prossime edizioni dei premi Oscar, o al più tardi entro i prossimi quattro anni:
"La domanda è aperta, non abbiamo avuto i veri colloqui su come si fa anche determinare cosa premio. Qual è il miglior stunt? È la migliore coreografia? La miglior sequenza d’azione? Il miglior ensemble di stunt? Il coordinatore di stunt ottiene qualcosa? E il ragazzo che fa la gag? Il coreografo di arti marziali? La coreografia di lotta? La controfigura? Il direttore della seconda unità? L’editore? Chi riceve il premio? Sono tutte grandi domande delle quali dobbiamo parlare da persone intelligenti su entrambi i fronti, la comunità degli stunt men e l’Academy."
Stahleski ha inoltre puntualizzato che nella produzione di John Wick ha potuto contare su ben tre coreografi dei combattimenti. In che modo questo andrebbe ad impattare sull’assegnazione del premio? Il regista ha spiegato come questi – all’apparenza piccoli – dettagli debbano essere risolti:
"Negli ultimi tre mesi, abbiamo parlato con i membri dell’Academy. […] Entrambe le parti sono state incredibilmente positive. Non c’è nessuno che abbiamo incontrato finora che sia contro questa iniziativa e da entrambe le parti vogliamo che si realizzi. Vogliono gli stunt agli Oscar. Succederà. Ed avverrà nel modo più giusto e ponderato possibile."
Nel corso degli anni, professionisti e giornalisti dei media hanno chiesto a più riprese di istituire un Oscar specifico per gli stunt. All’inizio di quest’anno, il Consiglio di Amministrazione dell’Academy ha creato la branca Produzione e Tecnologia, composta da 400 persone che lavorano in diverse posizioni chiave della produzione, e quasi 100 di questi individui sono appunto coordinatori delle acrobazie.
L’inserimento del nuovo riconoscimento inoltre permetterebbe agli Oscar di tenere in maggior considerazione film di grande richiamo verso il pubblico ed in particolare l’intero genere dei film d’azione, spesso e volentieri snobbati dalle categorie principali dei premi, sulla falsariga di quanto avvenuto negli ultimi anni con i cinecomic.
Fonte: BestMovie.It
Il franchise nato nel 2014 potrebbe portare ad una sorprendente novità nelle prossime edizioni dei premi.
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John Wick, l’amato franchise che vede Keanu Reeves nei panni dell’inossidabile killer, negli ultimi anni ha avuto il merito di riportare in auge presso il grande pubblico il cinema d’azione. La saga, giunta ormai al suo quarto capitolo, si è distinta per la grande creatività delle coreografie dei combattimenti, al punto da aver ravvivato in maniera importante il discorso – sempre più in voga negli ultimi anni – circa l’istituzione di un premio Oscar specifico per il Miglior stunt.
I tempi sembrano ormai maturi, e mai come oggi tale riconoscimento sembra pronto ad essere ufficialmente istituito dall’Academy. Tra i maggiori promotori dell’iniziativa vi è Chad Stahelski, stunt man di lunghissima esperienza affermatosi negli ultimi anni tra i più apprezzati registi di film d’azione proprio grazie alla saga di John Wick. Stahelski, negli anni, si è fatto promotore del dialogo tra le parti per avviare il processo per la creazione del nuovo riconoscimento, ed ora sembra che gli ingranaggi della grande macchina organizzativa e burocratica hollywoodiana si siano finalmente sbloccati.
In una recente intervista è stato infatti lo stesso regista di John Wick 4 ad annunciare come le conversazioni con l’Academy per l’istituzione di un premio Oscar specifico per la categoria degli stunt siano attualmente in corso, lasciando trapelare un malcelato ottimismo per la buona riuscita dell’iniziativa:
"Abbiamo incontrato i membri dell’Academy e abbiamo avuto queste conversazioni, e, ad essere onesti, sono state incredibilmente positive ed istruttive. Penso che, per la prima volta, abbiamo fatto il primo vero passo in avanti in questa direzione."
Stahelski ha aggiunto inoltre come, a suo modo di vedere, l’ufficializzazione del riconoscimento per gli stunt possa arrivare già entro le due prossime edizioni dei premi Oscar, o al più tardi entro i prossimi quattro anni:
"La domanda è aperta, non abbiamo avuto i veri colloqui su come si fa anche determinare cosa premio. Qual è il miglior stunt? È la migliore coreografia? La miglior sequenza d’azione? Il miglior ensemble di stunt? Il coordinatore di stunt ottiene qualcosa? E il ragazzo che fa la gag? Il coreografo di arti marziali? La coreografia di lotta? La controfigura? Il direttore della seconda unità? L’editore? Chi riceve il premio? Sono tutte grandi domande delle quali dobbiamo parlare da persone intelligenti su entrambi i fronti, la comunità degli stunt men e l’Academy."
Stahleski ha inoltre puntualizzato che nella produzione di John Wick ha potuto contare su ben tre coreografi dei combattimenti. In che modo questo andrebbe ad impattare sull’assegnazione del premio? Il regista ha spiegato come questi – all’apparenza piccoli – dettagli debbano essere risolti:
"Negli ultimi tre mesi, abbiamo parlato con i membri dell’Academy. […] Entrambe le parti sono state incredibilmente positive. Non c’è nessuno che abbiamo incontrato finora che sia contro questa iniziativa e da entrambe le parti vogliamo che si realizzi. Vogliono gli stunt agli Oscar. Succederà. Ed avverrà nel modo più giusto e ponderato possibile."
Nel corso degli anni, professionisti e giornalisti dei media hanno chiesto a più riprese di istituire un Oscar specifico per gli stunt. All’inizio di quest’anno, il Consiglio di Amministrazione dell’Academy ha creato la branca Produzione e Tecnologia, composta da 400 persone che lavorano in diverse posizioni chiave della produzione, e quasi 100 di questi individui sono appunto coordinatori delle acrobazie.
L’inserimento del nuovo riconoscimento inoltre permetterebbe agli Oscar di tenere in maggior considerazione film di grande richiamo verso il pubblico ed in particolare l’intero genere dei film d’azione, spesso e volentieri snobbati dalle categorie principali dei premi, sulla falsariga di quanto avvenuto negli ultimi anni con i cinecomic.
Fonte: BestMovie.It
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JOHN WICK 4, ARRIVA LA DIRECTOR'S CUT: IL FILM CON KEANU REEVES DIVENTA ANCORA PIÙ LUNGO
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John Wick 4 ha stabilito diversi record per la saga di Keanu Reeves, non ultimo quello della durata, ma a quanto pare c'è ancora tanto da vedere e il regista Chad Stahelski ha confermato ufficialmente l'arrivo di una director's cut che conterrà un montaggio più esteso rispetto a quello delle sale.
Oltre a confermare che questa director's cut di John Wick 4 potrebbe durare circa a 15 minuti in più della versione uscita nei cinema di tutto il mondo - che, a 170 minuti, è già di per sé uno degli action più lunghi della storia del cinema - nel corso di una nuova intervista promozionale con ComicBookMovie il regista ha anticipato anche qualche dettaglio aggiuntivo sui contenuti che saranno inseriti nel testo filmico:
"Ho lavorato al Director's Cut, il taglio esteso, e posso dire che è quasi completato. Ci saranno circa dai 10 ai 15 minuti di scene inedite, che abbiamo reinserito dopo averle tagliate prima dell'uscita in sala. Abbiamo rimesso una grossa fetta delle scene a Berlino, e ci sarà anche un personaggio completamente nuovo chiamato The Frau, assente nel film originale: si trova in una scena piuttosto divertente con John, e in un'altra scena con Tracker. E poi alcune altre piccole cose. Quando fai un film, ci sono sempre cose che andrai a togliere perché non si adattano bene al ritmo della storia. Penso che queste sequenze che stiamo reinserendo siano tutte di ottima qualità, adoro la coreografia, adoro i personaggi. Semplicemente non andavano bene nel complesso, sapevo che non ci avrebbero permesso di fare uscire un film così lungo se avesse avuto dei cambi di ritmo e avesse rallentato."
Non ci sono informazioni ufficiali relative all'uscita di John Wick 4: Director's cut, sebbene si stia mormorando il mese di dicembre.
Fonte: Cinema.EveryEye.It
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John Wick 4 ha stabilito diversi record per la saga di Keanu Reeves, non ultimo quello della durata, ma a quanto pare c'è ancora tanto da vedere e il regista Chad Stahelski ha confermato ufficialmente l'arrivo di una director's cut che conterrà un montaggio più esteso rispetto a quello delle sale.
Oltre a confermare che questa director's cut di John Wick 4 potrebbe durare circa a 15 minuti in più della versione uscita nei cinema di tutto il mondo - che, a 170 minuti, è già di per sé uno degli action più lunghi della storia del cinema - nel corso di una nuova intervista promozionale con ComicBookMovie il regista ha anticipato anche qualche dettaglio aggiuntivo sui contenuti che saranno inseriti nel testo filmico:
"Ho lavorato al Director's Cut, il taglio esteso, e posso dire che è quasi completato. Ci saranno circa dai 10 ai 15 minuti di scene inedite, che abbiamo reinserito dopo averle tagliate prima dell'uscita in sala. Abbiamo rimesso una grossa fetta delle scene a Berlino, e ci sarà anche un personaggio completamente nuovo chiamato The Frau, assente nel film originale: si trova in una scena piuttosto divertente con John, e in un'altra scena con Tracker. E poi alcune altre piccole cose. Quando fai un film, ci sono sempre cose che andrai a togliere perché non si adattano bene al ritmo della storia. Penso che queste sequenze che stiamo reinserendo siano tutte di ottima qualità, adoro la coreografia, adoro i personaggi. Semplicemente non andavano bene nel complesso, sapevo che non ci avrebbero permesso di fare uscire un film così lungo se avesse avuto dei cambi di ritmo e avesse rallentato."
Non ci sono informazioni ufficiali relative all'uscita di John Wick 4: Director's cut, sebbene si stia mormorando il mese di dicembre.
Fonte: Cinema.EveryEye.It
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- DUNE 2 Trailer 2 (2023) -
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John Wick 4, secondo uno studio il film di Keanu Reeves ha battuto l’universo Marvel e Fast & Furious
L'ultimo capitolo del franchise ha superato in una specifica categoria le altre assodate realtà cinematografiche.
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La sfida tra i grandi franchise al botteghino mondiale sembra non lasciare dubbi: tra l’universo Marvel, la saga di Fast & Furious e quella di John Wick, a guardare tutti dall’alto in basso in questo 2023 al momento c’è la prima realtà, grazie agli oltre 830 milioni di Guardiani della Galassia Vol.3. L’ultimo film con Keanu Reeves tuttavia può consolarsi, perché secondo uno studio ha battuto la concorrenza in una specifica categoria.
Condotta da Parrot Analytics e riportata da The Wrap, la ricerca ha infatti decretato che John Wick: Chapter 4 è il film più popolare del 2023. Secondo i dati, l’ultima fatica dell’amatissima star ha generato oltre 216 volte la domanda di un film medio. Il risultato è calcolato incrociando le visualizzazioni sulle piattaforme, download, engagment dei social media, ricerche sui motori di ricerca e numerosi altri fattori.
Al secondo posto si è piazzato Guardiani della Galassia Vol.3, l’ultimo film di James Gunn per l’universo Marvel, seguito subito dietro da Fast X, prima parte dei capitoli finali della saga con Vin Diesel. Tale traguardo conferma un trend inusuale per John Wick: rispetto ad altre realtà con numerosi film, la popolarità della saga è andata sempre in crescendo, sia in termini economici di botteghino che di appeal con lo spettatore.
Nelle scorse settimane il franchise ha raggiunto il miliardo di dollari di incassi, traguardo che ha probabilmente spinto la Lionsgate a confermare un nuovo capitolo – anche se non è ancora chiaro se Keanu Reeves tornerà nella parte. L’universo del killer si espanderà a breve con la serie The Continental e con Ballerina con Ana De Armas, ma potrebbe presto anche fare la storia dei premi Oscar grazie all’introduzione di una speciale categoria dedicata agli stunt.
Fonte: BestMovie.It
L'ultimo capitolo del franchise ha superato in una specifica categoria le altre assodate realtà cinematografiche.
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La sfida tra i grandi franchise al botteghino mondiale sembra non lasciare dubbi: tra l’universo Marvel, la saga di Fast & Furious e quella di John Wick, a guardare tutti dall’alto in basso in questo 2023 al momento c’è la prima realtà, grazie agli oltre 830 milioni di Guardiani della Galassia Vol.3. L’ultimo film con Keanu Reeves tuttavia può consolarsi, perché secondo uno studio ha battuto la concorrenza in una specifica categoria.
Condotta da Parrot Analytics e riportata da The Wrap, la ricerca ha infatti decretato che John Wick: Chapter 4 è il film più popolare del 2023. Secondo i dati, l’ultima fatica dell’amatissima star ha generato oltre 216 volte la domanda di un film medio. Il risultato è calcolato incrociando le visualizzazioni sulle piattaforme, download, engagment dei social media, ricerche sui motori di ricerca e numerosi altri fattori.
Al secondo posto si è piazzato Guardiani della Galassia Vol.3, l’ultimo film di James Gunn per l’universo Marvel, seguito subito dietro da Fast X, prima parte dei capitoli finali della saga con Vin Diesel. Tale traguardo conferma un trend inusuale per John Wick: rispetto ad altre realtà con numerosi film, la popolarità della saga è andata sempre in crescendo, sia in termini economici di botteghino che di appeal con lo spettatore.
Nelle scorse settimane il franchise ha raggiunto il miliardo di dollari di incassi, traguardo che ha probabilmente spinto la Lionsgate a confermare un nuovo capitolo – anche se non è ancora chiaro se Keanu Reeves tornerà nella parte. L’universo del killer si espanderà a breve con la serie The Continental e con Ballerina con Ana De Armas, ma potrebbe presto anche fare la storia dei premi Oscar grazie all’introduzione di una speciale categoria dedicata agli stunt.
Fonte: BestMovie.It
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Speed era stato pensato in origine come sequel di Beverly Hills Cop: "Mettiamo Axel Foley su un bus!"
L'idea di un dirigente Paramount per un sequel di Beverly Hills Cop si è trasformata in un incredibile successo per Keanu Reeves e Sandra Bullock.
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Il franchise di Beverly Hills Cop ha rischiato di "scippare" Speed al grande pubblico. Secondo l'ex vicepresidente della produzione Paramount Don Granger, il progetto di Speed, in origine, era nato come sequel per la saga poliziesca con Eddie Murphy prima che Keanu Reeves e Sandra Bullock diventassero i protagonisti.
Durante l'ultimo episodio del podcast 50 MPH di Kris Tapley dedicato a Speed, Granger ha rivelato che i negoziati lo hanno portato a presentare la sceneggiatura come sceneggiatura di Beverly Hills Cop III.
"Volevo davvero provare a realizzare il film, e il mio ultimo disperato tentativo è stato presentarlo al pranzo del nostro presidente come possibile sceneggiatura per Beverly Hills Cop III', ha detto Granger. "Ho avuto circa 15 minuti di incertezza prima che fosse scartato, perché il mandato era quello di trovare un Beverly Hill Cop III. Quindi ho pensato, 'Mettiamo Axel Foley sull'autobus'".
Il rifiuto di Keanu Reeves a Speed 2
Bocciato da Paramount, nel 1994 Speed è diventato un blockbuster per 20th Century Fox del 1994 che ha affidato la regia a Jan de Bont. Il film ha dato vita a sequel, nel 1997, Speed 2 - Senza limiti, per cui Sandra Bullock ha ammesso di sentirsi ancora in imbarazzo dichiarando lo scorso anno: "Sono stata molto chiara al riguardo. Non aveva senso. Questo è il film che aver voluto non aver mai girato."
A differenza di Sandra Bullock, Keanu Reeves ha spiegato in più occasioni il motivo per cui ha rifiutato di recitare in Speed 2, nonostante il successo al botteghino del film originale e la vittoria all'Oscar per il miglior montaggio sonoro e il miglior missaggio sonoro. Reeves in seguito ha rivelato di essere stato messo in "esilio cinematografico" dalla 20th Century Fox per aver detto no, sostituto da Jason Patric come nuovo interesse amoroso del personaggio di Sandra Bullock.
Fonte: MoviePlayer.It
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Il franchise di Beverly Hills Cop ha rischiato di "scippare" Speed al grande pubblico. Secondo l'ex vicepresidente della produzione Paramount Don Granger, il progetto di Speed, in origine, era nato come sequel per la saga poliziesca con Eddie Murphy prima che Keanu Reeves e Sandra Bullock diventassero i protagonisti.
Durante l'ultimo episodio del podcast 50 MPH di Kris Tapley dedicato a Speed, Granger ha rivelato che i negoziati lo hanno portato a presentare la sceneggiatura come sceneggiatura di Beverly Hills Cop III.
"Volevo davvero provare a realizzare il film, e il mio ultimo disperato tentativo è stato presentarlo al pranzo del nostro presidente come possibile sceneggiatura per Beverly Hills Cop III', ha detto Granger. "Ho avuto circa 15 minuti di incertezza prima che fosse scartato, perché il mandato era quello di trovare un Beverly Hill Cop III. Quindi ho pensato, 'Mettiamo Axel Foley sull'autobus'".
Il rifiuto di Keanu Reeves a Speed 2
Bocciato da Paramount, nel 1994 Speed è diventato un blockbuster per 20th Century Fox del 1994 che ha affidato la regia a Jan de Bont. Il film ha dato vita a sequel, nel 1997, Speed 2 - Senza limiti, per cui Sandra Bullock ha ammesso di sentirsi ancora in imbarazzo dichiarando lo scorso anno: "Sono stata molto chiara al riguardo. Non aveva senso. Questo è il film che aver voluto non aver mai girato."
A differenza di Sandra Bullock, Keanu Reeves ha spiegato in più occasioni il motivo per cui ha rifiutato di recitare in Speed 2, nonostante il successo al botteghino del film originale e la vittoria all'Oscar per il miglior montaggio sonoro e il miglior missaggio sonoro. Reeves in seguito ha rivelato di essere stato messo in "esilio cinematografico" dalla 20th Century Fox per aver detto no, sostituto da Jason Patric come nuovo interesse amoroso del personaggio di Sandra Bullock.
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La nuova Biancaneve politicamente corretta: è mulatta, senza nani e senza principe (troppo patriarcale)
Il film in live action uscirà nel 2024. «Per evitare di rafforzare gli stereotipi del film d’animazione originale, abbiamo adottato un approccio diverso ai sette personaggi.
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Neraneve e i sette diversamente alti. Ovvero Biancaneve e i sette nani al tempo del politicamente corretto. Era nata come una fiaba senza pretese ma con la sensibilità di oggi certi stereotipi non sono più ammissibili, soprattutto in America dove la battaglia per far prevalere princìpi giusti ha ormai la forma di un’ossessione. Soprattutto nelle multinazionali globali, come Disney, il cui core business è sempre stato creare sogni per gli adolescenti. Solo che oggi quei sogni vanno riscritti in chiave moderna e contemporanea per non offendere nessuno, per essere inclusivi, per creare modelli in cui tutti possono riconoscersi (ma probabilmente arriverà il giorno in cui i bianchi si sentiranno discriminati e allora si ricomincerà il giro).
Le immagini esclusive pubblicate dal Daily Mail mostrano la nuova Biancaneve che vedremo nel live action Disney che uscirà nel 2024, ispirato al classico del 1937 (Biancaneve e i sette nani), il primo lungometraggio animato mai prodotto, tratto dall’omonima fiaba dei fratelli Grimm. Della storia originale però rimane soprattutto il titolo. Biancaneve infatti non ha più «la pelle bianca come il latte», ma è di origine latinoamericana (l’attrice Rachel Zegler, un mix di sangue polacco e colombiano); ci saranno tutti e sette ma non saranno più nani: piuttosto vanno chiamati «creature fatate» e rappresentano un mix di generi, etnie e altezze per non scontentare nessuno; il principe azzurro invece è stato eliminato, troppo patriarcale (del resto era già processato in passato per stupro per aver baciato Biancaneve senza consenso): è stato sbianchettato (si può dire?) anche per far capire che una donna se la può cavare benissimo da sola.
In un’intervista di qualche tempo fa Rachel Zegler aveva parlato delle critiche e delle ironie sul politically correct del film: «La gente scherza sul fatto che siamo politicamente corretti con Biancaneve. Sì, lo siamo, ma perché ce n’è bisogno». Un portavoce della Disney aveva spiegato così invece la scelta di eliminare i sette nani: «Per evitare di rafforzare gli stereotipi del film d’animazione originale, abbiamo adottato un approccio diverso ai sette personaggi e ci siamo consultati con i membri della comunità di chi è caratterizzato da nanismo». La questione in Disney viene presa in modo serissimo tanto che prima di molti grandi classici prodotti in passato lo spettatore viene avvisato che si può imbattere in scene delicate, stereotipi razziali o etnici obsoleti. Il film è preceduto da un disclaimer che avverte che il programma «include rappresentazioni negative e/o maltrattamenti di persone o culture». Succede in Peter Pan (dove gli indiani vengono chiamati pellerossa), nel Libro della giungla (per la rappresentazione della scimmia King Louie, accusata di perpetuare uno stereotipo degli afroamericani), negli Aristogatti (per la scena in cui un gatto, doppiato da un attore bianco, urla «parole» cinesi mentre suona il piano con le bacchette), in Lilly e il vagabondo (scorretto sugli asiatici per colpa dei gatti siamesi). Niente di tutto questo succederà nella nuovissima Biancaneve. Tutto corretto, tutto giusto. Forse a questo punto però di sbagliato c’è proprio il titolo.
Fonte: Corriere.It
Il film in live action uscirà nel 2024. «Per evitare di rafforzare gli stereotipi del film d’animazione originale, abbiamo adottato un approccio diverso ai sette personaggi.
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Neraneve e i sette diversamente alti. Ovvero Biancaneve e i sette nani al tempo del politicamente corretto. Era nata come una fiaba senza pretese ma con la sensibilità di oggi certi stereotipi non sono più ammissibili, soprattutto in America dove la battaglia per far prevalere princìpi giusti ha ormai la forma di un’ossessione. Soprattutto nelle multinazionali globali, come Disney, il cui core business è sempre stato creare sogni per gli adolescenti. Solo che oggi quei sogni vanno riscritti in chiave moderna e contemporanea per non offendere nessuno, per essere inclusivi, per creare modelli in cui tutti possono riconoscersi (ma probabilmente arriverà il giorno in cui i bianchi si sentiranno discriminati e allora si ricomincerà il giro).
Le immagini esclusive pubblicate dal Daily Mail mostrano la nuova Biancaneve che vedremo nel live action Disney che uscirà nel 2024, ispirato al classico del 1937 (Biancaneve e i sette nani), il primo lungometraggio animato mai prodotto, tratto dall’omonima fiaba dei fratelli Grimm. Della storia originale però rimane soprattutto il titolo. Biancaneve infatti non ha più «la pelle bianca come il latte», ma è di origine latinoamericana (l’attrice Rachel Zegler, un mix di sangue polacco e colombiano); ci saranno tutti e sette ma non saranno più nani: piuttosto vanno chiamati «creature fatate» e rappresentano un mix di generi, etnie e altezze per non scontentare nessuno; il principe azzurro invece è stato eliminato, troppo patriarcale (del resto era già processato in passato per stupro per aver baciato Biancaneve senza consenso): è stato sbianchettato (si può dire?) anche per far capire che una donna se la può cavare benissimo da sola.
In un’intervista di qualche tempo fa Rachel Zegler aveva parlato delle critiche e delle ironie sul politically correct del film: «La gente scherza sul fatto che siamo politicamente corretti con Biancaneve. Sì, lo siamo, ma perché ce n’è bisogno». Un portavoce della Disney aveva spiegato così invece la scelta di eliminare i sette nani: «Per evitare di rafforzare gli stereotipi del film d’animazione originale, abbiamo adottato un approccio diverso ai sette personaggi e ci siamo consultati con i membri della comunità di chi è caratterizzato da nanismo». La questione in Disney viene presa in modo serissimo tanto che prima di molti grandi classici prodotti in passato lo spettatore viene avvisato che si può imbattere in scene delicate, stereotipi razziali o etnici obsoleti. Il film è preceduto da un disclaimer che avverte che il programma «include rappresentazioni negative e/o maltrattamenti di persone o culture». Succede in Peter Pan (dove gli indiani vengono chiamati pellerossa), nel Libro della giungla (per la rappresentazione della scimmia King Louie, accusata di perpetuare uno stereotipo degli afroamericani), negli Aristogatti (per la scena in cui un gatto, doppiato da un attore bianco, urla «parole» cinesi mentre suona il piano con le bacchette), in Lilly e il vagabondo (scorretto sugli asiatici per colpa dei gatti siamesi). Niente di tutto questo succederà nella nuovissima Biancaneve. Tutto corretto, tutto giusto. Forse a questo punto però di sbagliato c’è proprio il titolo.
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BIANCANEVE, NIENTE NANI: ECCO COME SI CHIAMERANNO LE CREATURE DEL LIVE-ACTION
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Dopo le foto sul set di Biancaneve che mostrano i sette nani, a fornirci altre informazioni su questi ultimi è l'utente Twitter MyTimeToShineHello (@MyTimeToShineH): secondo il noto leaker, infatti, il termine "nani" è non soltanto etimologicamente distante dalle immagini, ma anche modificato dalla produzione stessa...
"Le persone che salvano Biancaneve in questa versione sono chiamate Banditi" scrive il leaker in un post. "Jonathan, l'interesse amoroso che NON È un principe, rimane ugualmente un Bandito. I Banditi sono come Robin Hood, rubano alla Regina per sfamare i poveri".
La scelta di sostituire Dotto, Mammolo, Pisolo, Brontolo e tutti gli altri nani conosciuti nel film d'animazione del 1937 ha suscitato l'ira dei fan, senza contare la mancanza del principe. Rachel Zegler di Biancaneve ha rotto il silenzio sulle polemiche, definendole "discorsi senza senso", ma ciò non è bastato a invertire la tendenza.
In ogni caso, la reazione degli appassionati potrebbe variare alla luce delle prossime rivelazioni: Disney ha bollato le foto trapelate come fake, al punto da contattare il Daily Mail – che le ha pubblicate in esclusiva – al fine di rettificare la notizia. Da parte sua, la rivista si è limitata a chiarire l'identità dell'attrice protagonista: a interpretare Biancaneve nelle immagini non è Rachel Zegler, bensì la sua controfigura. La questione tra Disney e Daily Mail rimane aperta: in attesa di dichiarazioni ufficiali, non possiamo che seguire il corso della vicenda.
Il film non ha ancora una data di pubblicazione certa, ma la finestra d'uscita coincide col 2024.
Fonte: Cinema.EveryEye.It
E così, dove in tutti i Fantasy è descritto che i Nani sono dei minatori, qui non abbiamo più Nani che vanno in miniera a lavorare e anche a divertirsi visto che amano farlo, ma fanno i banditi. Certo, le signorine non possono mica tenere in mano un piccone e rompersi un'unghia. E meno male che dicevano che le donne possono fare gli stessi lavori degli uomini, come no, meglio fare il brigante...
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Dopo le foto sul set di Biancaneve che mostrano i sette nani, a fornirci altre informazioni su questi ultimi è l'utente Twitter MyTimeToShineHello (@MyTimeToShineH): secondo il noto leaker, infatti, il termine "nani" è non soltanto etimologicamente distante dalle immagini, ma anche modificato dalla produzione stessa...
"Le persone che salvano Biancaneve in questa versione sono chiamate Banditi" scrive il leaker in un post. "Jonathan, l'interesse amoroso che NON È un principe, rimane ugualmente un Bandito. I Banditi sono come Robin Hood, rubano alla Regina per sfamare i poveri".
La scelta di sostituire Dotto, Mammolo, Pisolo, Brontolo e tutti gli altri nani conosciuti nel film d'animazione del 1937 ha suscitato l'ira dei fan, senza contare la mancanza del principe. Rachel Zegler di Biancaneve ha rotto il silenzio sulle polemiche, definendole "discorsi senza senso", ma ciò non è bastato a invertire la tendenza.
In ogni caso, la reazione degli appassionati potrebbe variare alla luce delle prossime rivelazioni: Disney ha bollato le foto trapelate come fake, al punto da contattare il Daily Mail – che le ha pubblicate in esclusiva – al fine di rettificare la notizia. Da parte sua, la rivista si è limitata a chiarire l'identità dell'attrice protagonista: a interpretare Biancaneve nelle immagini non è Rachel Zegler, bensì la sua controfigura. La questione tra Disney e Daily Mail rimane aperta: in attesa di dichiarazioni ufficiali, non possiamo che seguire il corso della vicenda.
Il film non ha ancora una data di pubblicazione certa, ma la finestra d'uscita coincide col 2024.
Fonte: Cinema.EveryEye.It
E così, dove in tutti i Fantasy è descritto che i Nani sono dei minatori, qui non abbiamo più Nani che vanno in miniera a lavorare e anche a divertirsi visto che amano farlo, ma fanno i banditi. Certo, le signorine non possono mica tenere in mano un piccone e rompersi un'unghia. E meno male che dicevano che le donne possono fare gli stessi lavori degli uomini, come no, meglio fare il brigante...
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STUDIO GHIBLI: AVETE MAI NOTATO QUESTI DETTAGLI STRANI NEI FILM?
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Studio Ghibli ha animato film di successo, con altissima qualità e dettagli ben studiati, non sentendo il bisogno di accompagnare lo spettatore verso ogni punto di trama e quei piccoli particolari che potevano sembrare semplici errori, in realtà hanno dei significati molto più importanti.
Lo Studio Ghibli ha realizzato una collezione di abiti per poter ricreare al meglio dei cosplay comodamente da casa e per indossare nella vita di tutti i giorni gli abiti delle proprie eroine preferite, dimostrando di essere sempre più interessato alle esigenze degli appassionati.
Alcuni fan ipotizzano che tutti i film dello Studio Ghibli siano collegati fra loro e a sostegno della tesi c'è una scena in particolare di Ponyo: la canzone che Lisa canta a suo figlio Sosuke in Ponyo in una scena del film, dal titolo è "Happy As Can Be", è una cara citazione alla sigla iniziale de Il mio vicino Totoro.
Un altro dettaglio a cui non viene dato peso nei lungometraggi di Miyazaki è presente in Principessa Mononoke. Gli spettatori più attenti noteranno che nel finale di Princess Mononoke, Lady Eboshi perde lo stesso braccio che aveva minacciato di tagliare al principe Ashitaka, mostrando un equilibrio macabro ma poetico.
Alcuni fan hanno interpretato questo come un errore, in realtà la scelta dietro è molto più profonda: stiamo parlando del cambio d'abito di Nausicaä in Nausicaä della Valle del vento, da rosa ad un intenso blu. Il suo vestito si tinge del sangue delle larve di ohmu che salva, ma il blu ha un valore forte valore simbolico. La profezia predice un eroe "vestito di blu" che "ripristinerà il legame dell'umanità con la Terra", ed è il caso della protagonista.
Similmente ne Il mondo segreto sotto il pavimento, la famiglia di Arrietty possiede un delizioso servizio da tè decorato con i semi delle carte da gioco, tuttavia manca l'asso di picche e non per un errore: questo seme viene considerato sfortunato, quasi un presagio di morte.
Recentemente è uscito l'ultimo film del maestro Miyazaki How Do You Live ed è già un successo clamoroso in tutto il Giappone, nonostante la scelta insolita di non attuare nessun tipo di marketing.
Fonte: Anime.EveryEye.It
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Studio Ghibli ha animato film di successo, con altissima qualità e dettagli ben studiati, non sentendo il bisogno di accompagnare lo spettatore verso ogni punto di trama e quei piccoli particolari che potevano sembrare semplici errori, in realtà hanno dei significati molto più importanti.
Lo Studio Ghibli ha realizzato una collezione di abiti per poter ricreare al meglio dei cosplay comodamente da casa e per indossare nella vita di tutti i giorni gli abiti delle proprie eroine preferite, dimostrando di essere sempre più interessato alle esigenze degli appassionati.
Alcuni fan ipotizzano che tutti i film dello Studio Ghibli siano collegati fra loro e a sostegno della tesi c'è una scena in particolare di Ponyo: la canzone che Lisa canta a suo figlio Sosuke in Ponyo in una scena del film, dal titolo è "Happy As Can Be", è una cara citazione alla sigla iniziale de Il mio vicino Totoro.
Un altro dettaglio a cui non viene dato peso nei lungometraggi di Miyazaki è presente in Principessa Mononoke. Gli spettatori più attenti noteranno che nel finale di Princess Mononoke, Lady Eboshi perde lo stesso braccio che aveva minacciato di tagliare al principe Ashitaka, mostrando un equilibrio macabro ma poetico.
Alcuni fan hanno interpretato questo come un errore, in realtà la scelta dietro è molto più profonda: stiamo parlando del cambio d'abito di Nausicaä in Nausicaä della Valle del vento, da rosa ad un intenso blu. Il suo vestito si tinge del sangue delle larve di ohmu che salva, ma il blu ha un valore forte valore simbolico. La profezia predice un eroe "vestito di blu" che "ripristinerà il legame dell'umanità con la Terra", ed è il caso della protagonista.
Similmente ne Il mondo segreto sotto il pavimento, la famiglia di Arrietty possiede un delizioso servizio da tè decorato con i semi delle carte da gioco, tuttavia manca l'asso di picche e non per un errore: questo seme viene considerato sfortunato, quasi un presagio di morte.
Recentemente è uscito l'ultimo film del maestro Miyazaki How Do You Live ed è già un successo clamoroso in tutto il Giappone, nonostante la scelta insolita di non attuare nessun tipo di marketing.
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L’autogol della Disney sui nani di Biancaneve e il nostro senso del ridicolo
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Eliminare attori dal fisico non conforme esclude, invece di includere. Ma noi adulti lamentosi, nostalgici e insofferenti al “politicamente corretto” siamo la prova vivente che è proprio ora di cambiarli, quei capisaldi della cultura infantile che ci hanno reso così insopportabili.
Se c’è qualcuno che ha il diritto di prendersela per la nuova Biancaneve Disney live-action in cui i sette nani saranno sostituiti da sette non meglio precisati “animali fantastici” sono proprio i nani. Una volta tanto che una megaproduzione hollywoodiana tratta un soggetto che prevederebbe ben sette ruoli per attori dal fisico non conforme, si eliminano sei di quei sette ruoli (perché pare che almeno un nano ci sarà, Brontolo, interpretato da Martin Klebba, già nel cast dei Pirati dei Caraibi). Sei opportunità di lavoro e di carriera in meno, sei occasioni in meno per mettersi in luce, dimostrare le proprie qualità interpretative, magari vincere dei premi, come accadde nel 1984 a Linda Hunt, affetta da nanismo ipofisario, premio Oscar per la migliore attrice non protagonista in Un anno vissuto pericolosamente, dove per di più interpretava un fotoreporter maschio (e si era in pieno edonismo reaganiano).
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Peter Dinklage ha innescato un processo grottesco
Credo che nel cahier de doléances degli attori americani in sciopero andrebbe aggiunta anche l’improvvida decisione della Disney, che lungi dall’essere un ossequio al “politicamente corretto” (il nome che i conservatori danno a ogni tentativo di riequilibrare secoli di onnipresenza bianca-etero-androcentrica nella narrazione occidentale del mondo) mi pare esattamente il contrario: anziché includere, esclude. E non si sa nemmeno se il «casting vocale» che la Disney sta effettuando per sostituire la pattuglia dei nani sia, almeno quello, riservato a nani veri. L’aspetto più grottesco di tutta la faccenda è che la falcidie di nani è stata la risposta alla dichiarazione di un attore affetto da acondroplasia (una forma di nanismo): Peter Dinklage, Tyrion Lannister nel Trono di spade.
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Contro quel cliché di buffe creaturine dai nomi leziosi
Dinklage, una vita spesa a lottare contro gli stereotipi, in gennaio si era preventivamente scagliato contro la Biancaneve disneyana: sì, molto progressista affidare la parte dell’eroina “bianca come il latte” a un’attrice di origini non wasp, non altrettanto mantenere i sette nani inevitabilmente inchiodati al cliché di buffe creaturine dai nomi leziosi coniato da Walt Disney nel 1937 e detestato da chiunque sia affetto da nanismo. La major californiana emise un virtuoso comunicato in cui rassicurava di avere coinvolto nella lavorazione la «comunità delle persone piccole» proprio per evitare di cadere in stereotipi offensivi. La collaborazione non dev’essere stata molto fruttuosa, se alla fine si è deciso di eliminare sei nani su sette (e gli attori nani se la sono presa con Dinklage). Umanizzare tutti quanti i nani evidentemente era un’impresa superiore alle forze dell’imponente pool di autori Disney.
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Disney che ormai da anni non sforna un’idea originale
«Che delusione,» ha osservato sul Guardian l’attrice Kiruna Stamell (poco più di un metro di statura), «ho più probabilità di essere una madre, un’amante, una segretaria, un’avvocata, un’insegnante o una medica nella vita reale che di interpretarne una in un film Disney». E si è chiesta come può un’azienda che non ha imparato a rappresentare i corpi disabili come tutti gli altri assumersi l’arduo compito di rendere umane le più celebri caricature di disabilità che essa stessa ha creato. Detto tutto il male possibile della Disney, incluso il fatto che ormai da anni non sa sfornare un’idea originale ma si limita, in buona sostanza, a trasformare innovativi capolavori dell’arte del Novecento in normali film con attori in carne e ossa e una marea di effetti speciali, veniamo a parlare di chi non è nano né monarchico eppure freme di sdegno all’idea di una Biancaneve che non solo farà a meno di Pisolo e Mammolo, ma si salverà senza bisogno di un principe azzurro.
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Amici adulti, guardiamoci in faccia: quanti anni abbiamo?
In genere sono persone grandi o molto grandi, che hanno visto l’ultimo film a cartoni animati quando ancora si poteva fumare in sala e che non hanno figli – altrimenti saprebbero che i ragazzi di oggi magari non hanno un buon rapporto con la realtà, ma rispetto ai prodotti dell’immaginario sono molto più attrezzati e disincantati di noi. Sanno apprezzare sia le fiabe tradizionali sia le loro riletture aggiornate senza trovarci forzature – anzi: per loro ormai la forzatura sarebbe una storia col principe caucasico che salva un impiastro di principessa più bianca di lui dagli incantesimi di una strega apertamente malvagia e non un’ex fata buona resa antisociale dalle persecuzioni subite in gioventù. Amici adulti, guardiamoci in faccia. No, non sto per ripetere l’ovvio, e cioè che le fiabe «classiche» sono state già epurate nell’Ottocento da tutti gli elementi più crudi, che nelle versioni più antiche Cappuccetto rosso veniva mangiata dal lupo punto e basta e le sorelle di Cenerentola si amputavano le dita e si finiva sul patibolo eccetera eccetera. Ma, seriamente, amici adulti: quanti anni abbiamo?
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Se siamo così nostalgici, prendiamo esempio dai nostri nonni
Vogliamo davvero fare il piagnisteo per i nanetti di Biancaneve, noi che per anni abbiamo preso per il culo quelli che se li mettevano nel giardino? Vogliamo stracciarci le vesti perché l’ultima Sirenetta Disney non ha la pelle bianca come un filetto di platessa? Pestare i piedi perché l’Augustus Gloop della Fabbrica di cioccolato di Dahl non può più essere «un ciccione», parola che ci fa sempre sbellicare? Se la versione originale dei capisaldi della cultura infantile ci ha reso così come siamo – lamentosi, nostalgici, infantili, paurosi, insofferenti al «politicamente corretto» e al tempo stesso incapaci di trovare argomenti ragionevoli e consistenti per osteggiarlo – allora è proprio ora di cambiarla, quella cultura. Oppure, visto che per noi il passato era sempre e comunque meglio, possiamo prendere esempio dai nostri nonni. Che avevano letto Pinocchio ma non strillavano se Disney trasferiva la vicenda in Tirolo, trasformava la Bambina dai capelli turchini in una biondissima pin-up e metteva in casa di Geppetto un gattino e un pesce rosso mai menzionati da Collodi. Avevano problemi più urgenti da risolvere, e soprattutto avevano il senso del ridicolo.
Fonte: Lettera43.It
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Eliminare attori dal fisico non conforme esclude, invece di includere. Ma noi adulti lamentosi, nostalgici e insofferenti al “politicamente corretto” siamo la prova vivente che è proprio ora di cambiarli, quei capisaldi della cultura infantile che ci hanno reso così insopportabili.
Se c’è qualcuno che ha il diritto di prendersela per la nuova Biancaneve Disney live-action in cui i sette nani saranno sostituiti da sette non meglio precisati “animali fantastici” sono proprio i nani. Una volta tanto che una megaproduzione hollywoodiana tratta un soggetto che prevederebbe ben sette ruoli per attori dal fisico non conforme, si eliminano sei di quei sette ruoli (perché pare che almeno un nano ci sarà, Brontolo, interpretato da Martin Klebba, già nel cast dei Pirati dei Caraibi). Sei opportunità di lavoro e di carriera in meno, sei occasioni in meno per mettersi in luce, dimostrare le proprie qualità interpretative, magari vincere dei premi, come accadde nel 1984 a Linda Hunt, affetta da nanismo ipofisario, premio Oscar per la migliore attrice non protagonista in Un anno vissuto pericolosamente, dove per di più interpretava un fotoreporter maschio (e si era in pieno edonismo reaganiano).
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Peter Dinklage ha innescato un processo grottesco
Credo che nel cahier de doléances degli attori americani in sciopero andrebbe aggiunta anche l’improvvida decisione della Disney, che lungi dall’essere un ossequio al “politicamente corretto” (il nome che i conservatori danno a ogni tentativo di riequilibrare secoli di onnipresenza bianca-etero-androcentrica nella narrazione occidentale del mondo) mi pare esattamente il contrario: anziché includere, esclude. E non si sa nemmeno se il «casting vocale» che la Disney sta effettuando per sostituire la pattuglia dei nani sia, almeno quello, riservato a nani veri. L’aspetto più grottesco di tutta la faccenda è che la falcidie di nani è stata la risposta alla dichiarazione di un attore affetto da acondroplasia (una forma di nanismo): Peter Dinklage, Tyrion Lannister nel Trono di spade.
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Contro quel cliché di buffe creaturine dai nomi leziosi
Dinklage, una vita spesa a lottare contro gli stereotipi, in gennaio si era preventivamente scagliato contro la Biancaneve disneyana: sì, molto progressista affidare la parte dell’eroina “bianca come il latte” a un’attrice di origini non wasp, non altrettanto mantenere i sette nani inevitabilmente inchiodati al cliché di buffe creaturine dai nomi leziosi coniato da Walt Disney nel 1937 e detestato da chiunque sia affetto da nanismo. La major californiana emise un virtuoso comunicato in cui rassicurava di avere coinvolto nella lavorazione la «comunità delle persone piccole» proprio per evitare di cadere in stereotipi offensivi. La collaborazione non dev’essere stata molto fruttuosa, se alla fine si è deciso di eliminare sei nani su sette (e gli attori nani se la sono presa con Dinklage). Umanizzare tutti quanti i nani evidentemente era un’impresa superiore alle forze dell’imponente pool di autori Disney.
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Disney che ormai da anni non sforna un’idea originale
«Che delusione,» ha osservato sul Guardian l’attrice Kiruna Stamell (poco più di un metro di statura), «ho più probabilità di essere una madre, un’amante, una segretaria, un’avvocata, un’insegnante o una medica nella vita reale che di interpretarne una in un film Disney». E si è chiesta come può un’azienda che non ha imparato a rappresentare i corpi disabili come tutti gli altri assumersi l’arduo compito di rendere umane le più celebri caricature di disabilità che essa stessa ha creato. Detto tutto il male possibile della Disney, incluso il fatto che ormai da anni non sa sfornare un’idea originale ma si limita, in buona sostanza, a trasformare innovativi capolavori dell’arte del Novecento in normali film con attori in carne e ossa e una marea di effetti speciali, veniamo a parlare di chi non è nano né monarchico eppure freme di sdegno all’idea di una Biancaneve che non solo farà a meno di Pisolo e Mammolo, ma si salverà senza bisogno di un principe azzurro.
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In genere sono persone grandi o molto grandi, che hanno visto l’ultimo film a cartoni animati quando ancora si poteva fumare in sala e che non hanno figli – altrimenti saprebbero che i ragazzi di oggi magari non hanno un buon rapporto con la realtà, ma rispetto ai prodotti dell’immaginario sono molto più attrezzati e disincantati di noi. Sanno apprezzare sia le fiabe tradizionali sia le loro riletture aggiornate senza trovarci forzature – anzi: per loro ormai la forzatura sarebbe una storia col principe caucasico che salva un impiastro di principessa più bianca di lui dagli incantesimi di una strega apertamente malvagia e non un’ex fata buona resa antisociale dalle persecuzioni subite in gioventù. Amici adulti, guardiamoci in faccia. No, non sto per ripetere l’ovvio, e cioè che le fiabe «classiche» sono state già epurate nell’Ottocento da tutti gli elementi più crudi, che nelle versioni più antiche Cappuccetto rosso veniva mangiata dal lupo punto e basta e le sorelle di Cenerentola si amputavano le dita e si finiva sul patibolo eccetera eccetera. Ma, seriamente, amici adulti: quanti anni abbiamo?
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Se siamo così nostalgici, prendiamo esempio dai nostri nonni
Vogliamo davvero fare il piagnisteo per i nanetti di Biancaneve, noi che per anni abbiamo preso per il culo quelli che se li mettevano nel giardino? Vogliamo stracciarci le vesti perché l’ultima Sirenetta Disney non ha la pelle bianca come un filetto di platessa? Pestare i piedi perché l’Augustus Gloop della Fabbrica di cioccolato di Dahl non può più essere «un ciccione», parola che ci fa sempre sbellicare? Se la versione originale dei capisaldi della cultura infantile ci ha reso così come siamo – lamentosi, nostalgici, infantili, paurosi, insofferenti al «politicamente corretto» e al tempo stesso incapaci di trovare argomenti ragionevoli e consistenti per osteggiarlo – allora è proprio ora di cambiarla, quella cultura. Oppure, visto che per noi il passato era sempre e comunque meglio, possiamo prendere esempio dai nostri nonni. Che avevano letto Pinocchio ma non strillavano se Disney trasferiva la vicenda in Tirolo, trasformava la Bambina dai capelli turchini in una biondissima pin-up e metteva in casa di Geppetto un gattino e un pesce rosso mai menzionati da Collodi. Avevano problemi più urgenti da risolvere, e soprattutto avevano il senso del ridicolo.
Fonte: Lettera43.It
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IL PROBLEMA DI MISSION IMPOSSIBLE 7 È CHE ESISTE JOHN WICK 4
Mission: Impossible - Dead Reckoning - Parte uno e John Wick 4, due pellicole che guardano al pubblico sfruttando il genere action... ma a modo loro.
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Il 2023 ha visto arrivare sui grandi schermi di tutto il mondo due colossi del genere action: John Wick 4 e Mission: Impossible - Dead Reckoning - Parte Uno. Entrambe le pellicole hanno cercato di sconvolgere il grande pubblico con alcune sequenze mozzafiato e stunt ben congegnati, ma... andando oltre il valore intrinseco e l'apporto di Tom Cruise in relazione al cinema contemporaneo, in questo caso lo scontro non lo ha visto sicuramente vincitore, specialmente quando si parla di Azione in termini di regia, cura, messa in scena e fotografia. Il cinema cambia e si evolve, lo ha sempre fatto, e ci sembra giusto sottolineare l'enorme valore creativo e formale di John Wick 4, in relazione a un genere che ha ancora molto da dire e lo fa utilizzando apparecchi e mezzi nuovi, atti a migliorarne la resa generale e il rapporto diretto con un'audience che negli anni ha visto praticamente qualsiasi cosa.
Così Wick e Mission: Impossible - Dead Reckoning - Parte Uno diventano i baluardi, almeno per adesso, di un ragionamento che si servirà delle loro caratteristiche specifiche per cercare di capire come il genere Action stia cambiando, attualmente parlando, e quale strada prenderà a breve.
Stanchezza e creatività nostalgica
Una delle prime cose che salta all'occhio, durante la visione di Mission: Impossible - Dead Reckoning - Parte Uno, è un certo tipo di stanchezza che sembra trascinare in avanti gli eventi generali, sia dal punto di vista della trama che della regia stessa.
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Anche se gli appassionati sembrano apprezzare le nuove gesta di Ethan Hunt, il film oscilla continuamente fra una verbosità piuttosto ingombrante, figlia della spy story alla base della narrazione, e un certo piglio formale che non sorprende troppo in termini di originalità. Fondamentalmente, specie dopo l'uscita di un film come John Wick 4, una pellicola che si pone allo spettatore come lo fa Mission: Impossible desta stupore, ma in termini negativi. La regia di Christopher McQuarrie, il modo stesso in cui si serve della macchina da presa per scrivere le immagini e comporre la storia, appare freddo e piuttosto svogliato, quasi anonimo per certi versi, complici alcune scelte tecniche molto scolastiche (inquadrature fisse e stilemi estetici già visti nei titoli precedenti), lontane dalla ricercatezza e dal dinamismo estetico che possono trovarsi altrove.
La scelta di non strafare in termini formali non è, ovviamente, un demerito assoluto, piuttosto il limite di un cambiamento che sta avvenendo lentamente anche nel gusto generale in termini di film d'azione. La tanto decantata e sponsorizzata scena del salto con la motocicletta, ad esempio, rappresenta uno dei momenti più spettacolari di una pellicola che gioca con lo spettatore nel modo più diretto e infantile possibile, offrendogli un Tom Cruise lanciato in una scena da brividi. In parallelo, però, troviamo la sequenza dei treni sospesi nel vuoto, che pur alimentando una suspense tangibile, non concretizza mai le sue complete potenzialità, incidendo anche sulle tempistiche generali della pellicola.
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Questo approccio relativamente classico non emoziona più di tanto, offrendo una manciata di immagini che sono sì estremamente cinematografiche, ma al tempo stesso piuttosto derivative e familiari, figlie di uno stile che fa al meglio il proprio lavoro, senza però mai innovare veramente il materiale in scena, purtroppo. Non a caso, anche la stessa trama di Mission: Impossible - Dead Reckoning - Parte Uno guarda continuamente al passato della saga, sancendo un profondo rispetto nei confronti delle sue origini, riconfermate in un racconto che trasforma i propri anacronismi in elementi moderni e post-moderni, per poi approdare nella dimensione di una fantascienza che funziona.
La stessa identica cosa la troviamo anche nella dimensione formale, con un regista impegnato a tratteggiare un contesto che cita e si autocita, senza risultare mai troppo ispirato, ma curiosamente nostalgico e pur sempre impegnato a sfruttare la macchina cinematografica per approcciarsi facilmente al pubblico di tutto il mondo, in egual maniera.
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Così, la stessa stanchezza che pare percepire Tom Cruise quando è in scena diventa una sorta di identità creativa che muove l'insieme spettacolare dei momenti a comporre questa pellicola. Sebbene la credibilità generale resti intatta, nell'insieme degli eventi trattati emerge un modus operandi registico che non convince fino in fondo, complice la semplicità spossata di una poetica ben lontana dalle attuali possibilità che il genere action potrebbe raccontare.
Cambiamento
John Wick 4, invece, dal canto suo, è una pellicola che si è mossa decisamente nella direzione opposta rispetto a Mission: Impossible - Dead Reckoning - Parte Uno, in termini di regia, fotografia e messa in scena. Partendo proprio dallo sperimentalismo alla base della sua identità formale, viene naturale riflettere sullo stesso genere action e su tutte le implicazioni future che un lavoro del genere potrebbe o meno avere in termini tecnici e creativi.
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Diversamente da quanto visto in Mission: Impossible, qui il tocco di Chad Stahelski, il regista, è più palese che mai in termini autoriali. Anche se John Wick 4 non brilla dal punto di vista della trama, offrendo una serie di situazioni e un viaggio dell'eroe visto anche altrove, è proprio nelle modalità in cui viene messo in scena che risplende dall'inizio alla fine. In questa pellicola troviamo il consolidarsi, ancora una volta, della grande chimica tra Stahelski e Dan Laustsen (il suo direttore della fotografia), già confermata in John Wick - Capitolo 2 e in John Wick 3 - Parabellum. È proprio nel connubio artistico di questi due che risiede il valore creativo di una pellicola che fa del suo meglio soprattutto in termini estetici e creativi, cercando continuamente di innovare le proprie possibilità nel genere action, fino a generare uno sguardo estremamente dinamico e standard sicuramente interessanti in termini cinematografici.
Con questo film, la scrittura assume una valenza tutta figurativa, sfruttando principalmente la dimensione visiva per raccontare, emozionare e attrarre il pubblico verso gli eventi sul grande schermo. Servendosi, quindi, di una sceneggiatura essenziale e concentrata a rendere tutto quello che vediamo e soprattutto sentiamo pronunciare ai personaggi in gioco, attraverso una chiave più epica, John Wick 4 tratteggia il proprio percorso all'insegna di una spettacolarizzazione studiata che si manifesta anche nei momenti più tranquilli e fermi, con inquadrature pittoriche e ben equilibrate, valorizzate da una composizione che gioca con i neon e le scenografie in cui tutto si muove.
La luce è un altro elemento centrale nella costruzione dell'identità estetico-concettuale della pellicola, sfruttata sia per valorizzare le sfumature noir di alcuni sviluppi (non è difficile assistere a un cambio cromatico improvviso dell'illuminazione atto a sottolineare lo stato d'animo dei personaggi in scena o a diventarne un riflesso diretto) che per disegnare alcuni elementi totalmente assenti, dal punto di vista tangibile, ma sottocutanei dal punto di vista concettuale (un esempio di ciò lo troviamo nella scena ambientata nella discoteca a Berlino, in cui dietro alla schiena dell'antagonista principale, non appena inquadrato da lontano, si può notare un fascio di luci a forma di trono).
È proprio questa indole fatta di oggetti aerei ma chiari e colori a distanziare John Wick 4 da qualsiasi altro prodotto action attuale, contribuendo a valorizzarne le dinamiche più violente attraverso una particolarissima raffinatezza formale che ritorna continuamente, di scena in scena, risultando perfettamente coerente con i cliché in gioco, fin quasi a impreziosirli. In tutto questo, troviamo anche alcune citazioni molto importanti al cinema di genere, pronte a diventare parte dello stesso tessuto narrativo della pellicola.
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Il cinema Western, innanzi tutto, è una costante sia in termini visivi che narrativi e strutturali, contribuendo ad alimentare una certa epica epica omerica (fatta di grandi eroi irraggiungibili e scontri assurdamente spettacolari) presente dall'inizio alla fine. Con questa troviamo anche citazioni a grandi classici come I guerrieri della notte, per fare un esempio, e allo stesso mondo dei videogiochi (basti pensare allo spettacolare piano sequenza girato in Francia, in cui la telecamera si solleva sopra la testa del protagonista e lo segue passo passo durante uno scontro a fuoco, accompagnato dal ritmo pulsante e ignorantissimo di una melodia da discoteca). Anche in Mission: Impossible - Dead Reckoning - Parte Uno troviamo citazioni e auto-citazioni interessanti, ma non tanto incisive quanto quelle di John Wick per quanto riguarda originalità e scrittura.
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Come anticipato poc'anzi, un aspetto da non sottovalutare affatto dell'ultimo film di Keanu Reeves è proprio il suo lato più ludico e divertente; quella manciata di scelte strutturali che avvicinano tantissimo l'azione ai concept dei videogames, delineando un prezioso dinamismo scenico che Mission: Impossible non è riuscito a confermare con questo capitolo, restando ancorato a scelte più statiche e scolastiche. Lo stesso divertimento del regista, qui, è più palese che mai, alternando momenti estremamente concitati a lunghe sequenze e stunt che risultano esagerate e dai tratti buffi, ma comunque interessanti da vedere, avvalorando anche un certo piglio fumettistico alla base delle varie riflessioni narrative (evidenziato pure dal modo in cui sono caratterizzati i personaggi on stage).
Fonte: Cinema.EveryEye.It
Mission: Impossible - Dead Reckoning - Parte uno e John Wick 4, due pellicole che guardano al pubblico sfruttando il genere action... ma a modo loro.
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Il 2023 ha visto arrivare sui grandi schermi di tutto il mondo due colossi del genere action: John Wick 4 e Mission: Impossible - Dead Reckoning - Parte Uno. Entrambe le pellicole hanno cercato di sconvolgere il grande pubblico con alcune sequenze mozzafiato e stunt ben congegnati, ma... andando oltre il valore intrinseco e l'apporto di Tom Cruise in relazione al cinema contemporaneo, in questo caso lo scontro non lo ha visto sicuramente vincitore, specialmente quando si parla di Azione in termini di regia, cura, messa in scena e fotografia. Il cinema cambia e si evolve, lo ha sempre fatto, e ci sembra giusto sottolineare l'enorme valore creativo e formale di John Wick 4, in relazione a un genere che ha ancora molto da dire e lo fa utilizzando apparecchi e mezzi nuovi, atti a migliorarne la resa generale e il rapporto diretto con un'audience che negli anni ha visto praticamente qualsiasi cosa.
Così Wick e Mission: Impossible - Dead Reckoning - Parte Uno diventano i baluardi, almeno per adesso, di un ragionamento che si servirà delle loro caratteristiche specifiche per cercare di capire come il genere Action stia cambiando, attualmente parlando, e quale strada prenderà a breve.
Stanchezza e creatività nostalgica
Una delle prime cose che salta all'occhio, durante la visione di Mission: Impossible - Dead Reckoning - Parte Uno, è un certo tipo di stanchezza che sembra trascinare in avanti gli eventi generali, sia dal punto di vista della trama che della regia stessa.
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Anche se gli appassionati sembrano apprezzare le nuove gesta di Ethan Hunt, il film oscilla continuamente fra una verbosità piuttosto ingombrante, figlia della spy story alla base della narrazione, e un certo piglio formale che non sorprende troppo in termini di originalità. Fondamentalmente, specie dopo l'uscita di un film come John Wick 4, una pellicola che si pone allo spettatore come lo fa Mission: Impossible desta stupore, ma in termini negativi. La regia di Christopher McQuarrie, il modo stesso in cui si serve della macchina da presa per scrivere le immagini e comporre la storia, appare freddo e piuttosto svogliato, quasi anonimo per certi versi, complici alcune scelte tecniche molto scolastiche (inquadrature fisse e stilemi estetici già visti nei titoli precedenti), lontane dalla ricercatezza e dal dinamismo estetico che possono trovarsi altrove.
La scelta di non strafare in termini formali non è, ovviamente, un demerito assoluto, piuttosto il limite di un cambiamento che sta avvenendo lentamente anche nel gusto generale in termini di film d'azione. La tanto decantata e sponsorizzata scena del salto con la motocicletta, ad esempio, rappresenta uno dei momenti più spettacolari di una pellicola che gioca con lo spettatore nel modo più diretto e infantile possibile, offrendogli un Tom Cruise lanciato in una scena da brividi. In parallelo, però, troviamo la sequenza dei treni sospesi nel vuoto, che pur alimentando una suspense tangibile, non concretizza mai le sue complete potenzialità, incidendo anche sulle tempistiche generali della pellicola.
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Questo approccio relativamente classico non emoziona più di tanto, offrendo una manciata di immagini che sono sì estremamente cinematografiche, ma al tempo stesso piuttosto derivative e familiari, figlie di uno stile che fa al meglio il proprio lavoro, senza però mai innovare veramente il materiale in scena, purtroppo. Non a caso, anche la stessa trama di Mission: Impossible - Dead Reckoning - Parte Uno guarda continuamente al passato della saga, sancendo un profondo rispetto nei confronti delle sue origini, riconfermate in un racconto che trasforma i propri anacronismi in elementi moderni e post-moderni, per poi approdare nella dimensione di una fantascienza che funziona.
La stessa identica cosa la troviamo anche nella dimensione formale, con un regista impegnato a tratteggiare un contesto che cita e si autocita, senza risultare mai troppo ispirato, ma curiosamente nostalgico e pur sempre impegnato a sfruttare la macchina cinematografica per approcciarsi facilmente al pubblico di tutto il mondo, in egual maniera.
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Così, la stessa stanchezza che pare percepire Tom Cruise quando è in scena diventa una sorta di identità creativa che muove l'insieme spettacolare dei momenti a comporre questa pellicola. Sebbene la credibilità generale resti intatta, nell'insieme degli eventi trattati emerge un modus operandi registico che non convince fino in fondo, complice la semplicità spossata di una poetica ben lontana dalle attuali possibilità che il genere action potrebbe raccontare.
Cambiamento
John Wick 4, invece, dal canto suo, è una pellicola che si è mossa decisamente nella direzione opposta rispetto a Mission: Impossible - Dead Reckoning - Parte Uno, in termini di regia, fotografia e messa in scena. Partendo proprio dallo sperimentalismo alla base della sua identità formale, viene naturale riflettere sullo stesso genere action e su tutte le implicazioni future che un lavoro del genere potrebbe o meno avere in termini tecnici e creativi.
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Diversamente da quanto visto in Mission: Impossible, qui il tocco di Chad Stahelski, il regista, è più palese che mai in termini autoriali. Anche se John Wick 4 non brilla dal punto di vista della trama, offrendo una serie di situazioni e un viaggio dell'eroe visto anche altrove, è proprio nelle modalità in cui viene messo in scena che risplende dall'inizio alla fine. In questa pellicola troviamo il consolidarsi, ancora una volta, della grande chimica tra Stahelski e Dan Laustsen (il suo direttore della fotografia), già confermata in John Wick - Capitolo 2 e in John Wick 3 - Parabellum. È proprio nel connubio artistico di questi due che risiede il valore creativo di una pellicola che fa del suo meglio soprattutto in termini estetici e creativi, cercando continuamente di innovare le proprie possibilità nel genere action, fino a generare uno sguardo estremamente dinamico e standard sicuramente interessanti in termini cinematografici.
Con questo film, la scrittura assume una valenza tutta figurativa, sfruttando principalmente la dimensione visiva per raccontare, emozionare e attrarre il pubblico verso gli eventi sul grande schermo. Servendosi, quindi, di una sceneggiatura essenziale e concentrata a rendere tutto quello che vediamo e soprattutto sentiamo pronunciare ai personaggi in gioco, attraverso una chiave più epica, John Wick 4 tratteggia il proprio percorso all'insegna di una spettacolarizzazione studiata che si manifesta anche nei momenti più tranquilli e fermi, con inquadrature pittoriche e ben equilibrate, valorizzate da una composizione che gioca con i neon e le scenografie in cui tutto si muove.
La luce è un altro elemento centrale nella costruzione dell'identità estetico-concettuale della pellicola, sfruttata sia per valorizzare le sfumature noir di alcuni sviluppi (non è difficile assistere a un cambio cromatico improvviso dell'illuminazione atto a sottolineare lo stato d'animo dei personaggi in scena o a diventarne un riflesso diretto) che per disegnare alcuni elementi totalmente assenti, dal punto di vista tangibile, ma sottocutanei dal punto di vista concettuale (un esempio di ciò lo troviamo nella scena ambientata nella discoteca a Berlino, in cui dietro alla schiena dell'antagonista principale, non appena inquadrato da lontano, si può notare un fascio di luci a forma di trono).
È proprio questa indole fatta di oggetti aerei ma chiari e colori a distanziare John Wick 4 da qualsiasi altro prodotto action attuale, contribuendo a valorizzarne le dinamiche più violente attraverso una particolarissima raffinatezza formale che ritorna continuamente, di scena in scena, risultando perfettamente coerente con i cliché in gioco, fin quasi a impreziosirli. In tutto questo, troviamo anche alcune citazioni molto importanti al cinema di genere, pronte a diventare parte dello stesso tessuto narrativo della pellicola.
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Il cinema Western, innanzi tutto, è una costante sia in termini visivi che narrativi e strutturali, contribuendo ad alimentare una certa epica epica omerica (fatta di grandi eroi irraggiungibili e scontri assurdamente spettacolari) presente dall'inizio alla fine. Con questa troviamo anche citazioni a grandi classici come I guerrieri della notte, per fare un esempio, e allo stesso mondo dei videogiochi (basti pensare allo spettacolare piano sequenza girato in Francia, in cui la telecamera si solleva sopra la testa del protagonista e lo segue passo passo durante uno scontro a fuoco, accompagnato dal ritmo pulsante e ignorantissimo di una melodia da discoteca). Anche in Mission: Impossible - Dead Reckoning - Parte Uno troviamo citazioni e auto-citazioni interessanti, ma non tanto incisive quanto quelle di John Wick per quanto riguarda originalità e scrittura.
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L'Organizzazione è ciò che distingue i Dodo dalle bestie! By la vostra APUMA sempre qui!
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Salva una Pianta, mangia un Vegano!
Un Mega Bacio alla mia cara Hunterus Heroicus KIM, Mishamiga in Winchester!
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Età : 24
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- DEMETER: IL RISVEGLIO DI DRACULA (2023) Trailer ITA del Film Horror -
Ed ecco la solita moda italiana di dare un titolo sballato ad un film straniero. Perché scrivere Il Risveglio di Dracula? Per andare in Inghilterra dalla Transilvania, Dracula prende la goletta Demeter e usa il suo equipaggio come cibo per arrivare in Inghilterra ben nutrito, insomma, era sveglissimo. Non si poteva semplicemente tradurre il titolo e intitolarlo L'ULTIMO VIAGGIO DELLA DEMETER? Secondo me suona meglio e, per chi non avesse mai letto il libro, non c'erano spoiler sulla presenza di Dracula a bordo...
Ed ecco la solita moda italiana di dare un titolo sballato ad un film straniero. Perché scrivere Il Risveglio di Dracula? Per andare in Inghilterra dalla Transilvania, Dracula prende la goletta Demeter e usa il suo equipaggio come cibo per arrivare in Inghilterra ben nutrito, insomma, era sveglissimo. Non si poteva semplicemente tradurre il titolo e intitolarlo L'ULTIMO VIAGGIO DELLA DEMETER? Secondo me suona meglio e, per chi non avesse mai letto il libro, non c'erano spoiler sulla presenza di Dracula a bordo...
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L’incanto del Cinema d’Animazione
Perché gli anime dello Studio Ghibli non sono dei semplici prodotti d’evasione.
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Non mi sono mai chiesta quale fosse la ragione del mio amore per i film dello Studio Ghibli (si pronuncia Gibli!) o il perché ogni volta che ne ho la possibilità ricomincio a rivederli uno alla volta. Per me hanno sempre rappresentato un mondo di magia e poesia, fatto di spiriti della natura che prendono vita, paesaggi bucolici e straordinari, personaggi che affrontano le sfide della vita con coraggio e speranza, tutti accomunati da una profonda emotività. Ho iniziato a rifletterci su quando un giorno mi è stato chiesto “Ma non sono cartoni animati? Vale la pena guardarli?”.
In effetti perché scegliere di vedere un film dello Studio Ghibli? Perché appassionano così tanto dei lungometraggi che, erroneamente, si pensa siano rivolti solo ed esclusivamente ai bambini?
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Partiamo dal generico. La prima cosa che si nota nei film è l’animazione artigianale; ogni singolo oggetto, scenario o protagonista viene disegnato e dipinto a mano prima di essere digitalizzato. Nelle linee perfette si riesce a contraddistinguere la mano dell’artista, il che rende questi film delle vere e proprie opere d’arte. Questa tecnica permette non solo di giocare con la fantasia, dando vita a creature impossibili o con tratti esagerati come la strega Yubaba ne La città incantata, ma anche di mostrare fedelmente i meravigliosi paesaggi del Giappone, le campagne, le foreste, nonché gli abbigliamenti tradizionali e le succulente pietanze che fanno gola anche attraverso lo schermo.
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In tutti gli anime dell’universo Ghibli, di cui Hayao Miyazaki è il regista principale, c’è una forte componente folkloristica: ci si imbatte molto facilmente in figure della mitologia giapponese, come gli Yokai (demoni o fantasmi), momenti della tradizione nipponica o in storie ispirate alle leggende locali; La città incantata è il lungometraggio che fa dei personaggi del folklore giapponese i suoi protagonisti principali. Proprio per questo motivo un elemento che caratterizza i film è la magia, causa e fattore risolutivo delle mille avventure che coinvolgono i personaggi. Ne Il castello errante di Howl la magia è dapprima una condanna, rappresentata nella maledizione scagliata contro Sophie e nel patto che Howl ha stretto con il demone Calcifer; nel corso della vicenda però, la magia diventa l’elemento salvifico: Sophie, grazie alla maledizione, diventa combattiva e fiera e Howl, forte dell’amore per Sophie, utilizza le sue doti magiche per proteggere ciò che gli è più caro e sciogliere il patto con Calcifer.
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Un altro elemento essenziale che ricorre nei film dello Studio Ghibli è il rapporto tra uomo e natura, in cui la presenza degli spiriti e delle divinità è predominante. Uno dei film che mette al centro questo binomio, oltre ad essere un inno ambientalista, è La Principessa Mononoke; ambientato durante il periodo Muromachi, vediamo un Giappone spaccato in due: da una parte la mano dell’uomo che porta distruzione e sofferenza, dall’altro il cuore puro e incontaminato delle foreste, abitate dai piccoli spiriti Kodama, Kami e realtà divine. I tre protagonisti dell’anime, San (Principessa Mononoke), Ashitaka ed Eboshi incarnano i tre mondi fondati su questo profondo dualismo. San è la rappresentazione della vendetta della natura contro il progresso tecnologico, Eboshi simboleggia il desiderio umano di sottomettere la natura per consentire il progresso scientifico e sociale, Ashitaka invece è la dimostrazione che umanità e natura possono vivere in armonia. Sono queste diverse contraddizioni che mostrano come il mondo non possa essere diviso in “buoni” e “cattivi”, ma che le due entità saranno per sempre destinate a convivere. O quantomeno ad imparare a farlo.
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Nonostante la dimensione fantastica e a tratti favolistica, i film dello Studio Ghibli sono estremamente attuali, trattando con maturità svariate tematiche sociali e politiche. Ne è un esempio la critica anti-bellica che prende forma in gran parte degli anime di Miyazaki, in cui i conflitti non hanno mai uno scopo evidente ma ne accentuano solo l’insensatezza, motivo per cui non sono mai nominate le cause o le parti in gioco. Emergono solo le conseguenze. In Porco Rosso l’ideologia del regista è particolarmente evidente. Il protagonista Marco, un aviatore trasformato in un maiale, si oppone alla dittatura fascista decidendo di non combattere più in una guerra che porta morte e distruzione, in cui anche lui in passato ha preso parte. Il netto rifiuto verso gli orrori dell’umanità legittima la scelta di rimanere un maiale, racchiusa nella frase «piuttosto che diventare un fascista meglio essere un maiale».
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Ma arriviamo a quello che, secondo me, è l’aspetto più importante di questi anime; ed è anche la motivazione numero uno quando mi viene chiesto perché li guardo. I capolavori dello Studio Ghibli sono degli inni femministi; non esistono principesse che hanno bisogno di essere salvate, le donne vengono rappresentate come moderne eroine che prendono di petto le sfide, affrontando percorsi di crescita e di trasformazione personale; mai inferiori agli uomini, strenue lavoratrici per la comunità, spesso sono loro che intervengono per salvare la controparte maschile.
Le figure femminili sono tutt’altro che deboli e ciò è sconvolgente se si pensa che Miyazaki sia nato e cresciuto in un Paese prettamente patriarcale, in cui l’unico dovere delle donne è quello di pensare ai figli. Motivo per cui non bisogna associare questi film a delle semplici favole, ma a delle storie che veicolano un messaggio potente ed estremamente contemporaneo. Le protagoniste sono indipendenti e autonome come la giovane strega Kiki, che a soli 13 anni lascia la sua casa per cimentarsi nel suo primo lavoro; sono fiere e tenaci come la Principessa Mononoke; coraggiose come Chihiro mentre cerca di salvare i genitori da un destino fatale; avventurose e intelligenti come Sophie; pronte al sacrificio come Eboshi, sempre in prima fila per proteggere il suo popolo.
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Grazie ai diversi livelli interpretativi e a un linguaggio universale, i film dello Studio Ghibli possono essere visti da tutti, soprattutto se si pensa alle diverse tematiche che affrontano. E il bello di queste wunderkammer è che non si mostrano tutte in una volta, ma si dischiudono con il tempo, lasciando spazio a nuove interpretazioni.
Fonte: CultureFuture.Net
Perché gli anime dello Studio Ghibli non sono dei semplici prodotti d’evasione.
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Non mi sono mai chiesta quale fosse la ragione del mio amore per i film dello Studio Ghibli (si pronuncia Gibli!) o il perché ogni volta che ne ho la possibilità ricomincio a rivederli uno alla volta. Per me hanno sempre rappresentato un mondo di magia e poesia, fatto di spiriti della natura che prendono vita, paesaggi bucolici e straordinari, personaggi che affrontano le sfide della vita con coraggio e speranza, tutti accomunati da una profonda emotività. Ho iniziato a rifletterci su quando un giorno mi è stato chiesto “Ma non sono cartoni animati? Vale la pena guardarli?”.
In effetti perché scegliere di vedere un film dello Studio Ghibli? Perché appassionano così tanto dei lungometraggi che, erroneamente, si pensa siano rivolti solo ed esclusivamente ai bambini?
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Partiamo dal generico. La prima cosa che si nota nei film è l’animazione artigianale; ogni singolo oggetto, scenario o protagonista viene disegnato e dipinto a mano prima di essere digitalizzato. Nelle linee perfette si riesce a contraddistinguere la mano dell’artista, il che rende questi film delle vere e proprie opere d’arte. Questa tecnica permette non solo di giocare con la fantasia, dando vita a creature impossibili o con tratti esagerati come la strega Yubaba ne La città incantata, ma anche di mostrare fedelmente i meravigliosi paesaggi del Giappone, le campagne, le foreste, nonché gli abbigliamenti tradizionali e le succulente pietanze che fanno gola anche attraverso lo schermo.
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In tutti gli anime dell’universo Ghibli, di cui Hayao Miyazaki è il regista principale, c’è una forte componente folkloristica: ci si imbatte molto facilmente in figure della mitologia giapponese, come gli Yokai (demoni o fantasmi), momenti della tradizione nipponica o in storie ispirate alle leggende locali; La città incantata è il lungometraggio che fa dei personaggi del folklore giapponese i suoi protagonisti principali. Proprio per questo motivo un elemento che caratterizza i film è la magia, causa e fattore risolutivo delle mille avventure che coinvolgono i personaggi. Ne Il castello errante di Howl la magia è dapprima una condanna, rappresentata nella maledizione scagliata contro Sophie e nel patto che Howl ha stretto con il demone Calcifer; nel corso della vicenda però, la magia diventa l’elemento salvifico: Sophie, grazie alla maledizione, diventa combattiva e fiera e Howl, forte dell’amore per Sophie, utilizza le sue doti magiche per proteggere ciò che gli è più caro e sciogliere il patto con Calcifer.
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Un altro elemento essenziale che ricorre nei film dello Studio Ghibli è il rapporto tra uomo e natura, in cui la presenza degli spiriti e delle divinità è predominante. Uno dei film che mette al centro questo binomio, oltre ad essere un inno ambientalista, è La Principessa Mononoke; ambientato durante il periodo Muromachi, vediamo un Giappone spaccato in due: da una parte la mano dell’uomo che porta distruzione e sofferenza, dall’altro il cuore puro e incontaminato delle foreste, abitate dai piccoli spiriti Kodama, Kami e realtà divine. I tre protagonisti dell’anime, San (Principessa Mononoke), Ashitaka ed Eboshi incarnano i tre mondi fondati su questo profondo dualismo. San è la rappresentazione della vendetta della natura contro il progresso tecnologico, Eboshi simboleggia il desiderio umano di sottomettere la natura per consentire il progresso scientifico e sociale, Ashitaka invece è la dimostrazione che umanità e natura possono vivere in armonia. Sono queste diverse contraddizioni che mostrano come il mondo non possa essere diviso in “buoni” e “cattivi”, ma che le due entità saranno per sempre destinate a convivere. O quantomeno ad imparare a farlo.
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Nonostante la dimensione fantastica e a tratti favolistica, i film dello Studio Ghibli sono estremamente attuali, trattando con maturità svariate tematiche sociali e politiche. Ne è un esempio la critica anti-bellica che prende forma in gran parte degli anime di Miyazaki, in cui i conflitti non hanno mai uno scopo evidente ma ne accentuano solo l’insensatezza, motivo per cui non sono mai nominate le cause o le parti in gioco. Emergono solo le conseguenze. In Porco Rosso l’ideologia del regista è particolarmente evidente. Il protagonista Marco, un aviatore trasformato in un maiale, si oppone alla dittatura fascista decidendo di non combattere più in una guerra che porta morte e distruzione, in cui anche lui in passato ha preso parte. Il netto rifiuto verso gli orrori dell’umanità legittima la scelta di rimanere un maiale, racchiusa nella frase «piuttosto che diventare un fascista meglio essere un maiale».
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Ma arriviamo a quello che, secondo me, è l’aspetto più importante di questi anime; ed è anche la motivazione numero uno quando mi viene chiesto perché li guardo. I capolavori dello Studio Ghibli sono degli inni femministi; non esistono principesse che hanno bisogno di essere salvate, le donne vengono rappresentate come moderne eroine che prendono di petto le sfide, affrontando percorsi di crescita e di trasformazione personale; mai inferiori agli uomini, strenue lavoratrici per la comunità, spesso sono loro che intervengono per salvare la controparte maschile.
Le figure femminili sono tutt’altro che deboli e ciò è sconvolgente se si pensa che Miyazaki sia nato e cresciuto in un Paese prettamente patriarcale, in cui l’unico dovere delle donne è quello di pensare ai figli. Motivo per cui non bisogna associare questi film a delle semplici favole, ma a delle storie che veicolano un messaggio potente ed estremamente contemporaneo. Le protagoniste sono indipendenti e autonome come la giovane strega Kiki, che a soli 13 anni lascia la sua casa per cimentarsi nel suo primo lavoro; sono fiere e tenaci come la Principessa Mononoke; coraggiose come Chihiro mentre cerca di salvare i genitori da un destino fatale; avventurose e intelligenti come Sophie; pronte al sacrificio come Eboshi, sempre in prima fila per proteggere il suo popolo.
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Grazie ai diversi livelli interpretativi e a un linguaggio universale, i film dello Studio Ghibli possono essere visti da tutti, soprattutto se si pensa alle diverse tematiche che affrontano. E il bello di queste wunderkammer è che non si mostrano tutte in una volta, ma si dischiudono con il tempo, lasciando spazio a nuove interpretazioni.
Fonte: CultureFuture.Net
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IL FEMMINISMO SECONDO MATTEL
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Nella marea di dichiarazioni che hanno seguito l’uscita nelle sale di Barbie ne ho trovata una di Greta Gerwig, riportata da Deadline, piuttosto interessante: «Nel film ci sono elementi oltraggiosi che fanno dire alla gente: “Oh, mio Dio, non posso credere che la Mattel ti abbia permesso di farlo” o “Non posso credere che la Warner Bros. ti abbia permesso di farlo”». Ciò che mi colpisce è come questa frase, nonostante sia volta a mettere in evidenza la libertà creativa di cui la regista ha goduto, ponga chiaramente in contrapposizione l’autrice e i suoi committenti, mettendo allo scoperto la duplice natura del film: opera terza scritta (col marito Baumbach) e diretta dall’eroina del cinema indipendente americano Gerwig, ma anche opera prima da 100 milioni di dollari della Mattel Films, nuova divisione cinematografica dell’azienda statunitense fortemente voluta dal suo CEO Kreiz.
Guardando un film pasticciato come Barbie è quasi possibile osservare gli sforzi che sono stati fatti per rispondere a esigenze creative e commerciali diverse, e tentare di farle convivere. In realtà, per quanto improbabile, il sodalizio tra Mattel e Gerwig si fondava sulle giuste premesse per poter funzionare: per l’azienda, provare a imporre Barbie come un simbolo di empowerment femminile era una scelta praticamente obbligata per riportare oggi il brand al centro dell’attenzione; e per la regista non fare un film totalmente disimpegnato era altrettanto inevitabile, per non tradire il proprio percorso artistico e non esporsi del tutto alle prevedibili accuse di essersi svenduta, che le sono comunque puntualmente arrivate. Dando dunque per assodata un’iniziale comunione d’intenti riguardo agli obiettivi, sono evidentemente emerse delle divergenze su come raggiungerli.
Può essere un esercizio divertente, e in alcuni casi anche piuttosto facile, associare vari elementi del film, alternativamente, a Gerwig o a Mattel. Tanto per cominciare, i personaggi: è difficile togliersi l’impressione che Ken, come si usa dire, rubi la scena a Barbie, per quanto ciò possa suonare paradossale. Non accade solo per merito di Ryan Gosling – che pure, più di chiunque altro nel cast, riesce a calarsi nella parte fino a sembrare fatto di plastica e non di carne, portando con sé un bagaglio abbastanza insospettabile di comicità espressa non solo con la mimica facciale ma con l’intero corpo, arrivando al punto di strappare una risata con la semplice flessione di un bicipite. A lui vengono affidate tutte le trovate più memorabili del film, dalla confusa comprensione di cosa sia il patriarcato alla maglietta “I am Kenough” già diventata un meme.
Ancor più incredibile e paradossale è che il film renda più agevole immedesimarsi in lui che nella protagonista. Se Barbie, nel mondo reale, scopre un maschilismo e una mascolinità tossica che è tristemente ben familiare anche al pubblico in sala, Ken, nel mondo di Barbie, vive un incubo di proporzioni inimmaginabili. Condannato da Mattel a vivere per l’eternità in un mondo in cui è perdutamente innamorato di Barbie e da lei infinitamente rifiutato, e dove in ogni caso gli sarà per sempre preclusa la possibilità di consumare il suo amore perché, com’è noto, a entrambi mancano i genitali, si trova in una situazione di una crudeltà sisifea, prometeica. Oppure, per non ricorrere alla mitologia greca e usare riferimenti più recenti, pare intrappolato in un’allucinazione da Chew-Z controllata da Mattel anziché da Palmer Eldritch; ad ogni modo, più ci ripenso, più mi sembra una delle cose più terrificanti mai viste al cinema, totalmente incongruente rispetto a gag e colori sgargianti (e qui davvero mi chiedo come abbiano permesso a Gerwig di farlo).
Margot Robbie si trova invece a dover interpretare un personaggio molto meno interessante, forse perché è Gerwig a non trovarvi lo stesso potenziale, forse perché è Mattel a forzare la mano per ottenere determinati risultati. L’idea di Gerwig è costruire una sorta di bildungsroman a partire da un momento ben preciso, quello in cui una ragazzina dice a Barbie più o meno ciò che tutto il mondo pensa della bambola, terminando il discorso dandole della fascista e facendole perdere ogni certezza riguardo alla propria identità. Nel film ci sono tante tiratine d’orecchio a Mattel, di quelle che qualsiasi brand accetta di buon grado per mostrarsi moderno, trasparente, consapevole delle proprie colpe e abbastanza onesto, se non altro, da ammetterle; ma il discorso della ragazzina va ben oltre: è un furbissimo punto e a capo nell’intera e decennale narrazione del marchio. Da quel momento in poi Barbie cambia, nel film e (perciò) nella realtà; o almeno così vorrebbe Mattel. L’operazione però è troppo sfacciata e – come se non fosse già abbastanza complicato mettere in scena il bildungsroman di un pupazzo di plastica – che credibilità può avere un racconto di formazione interamente sovrapponibile a un’operazione di marketing e di riposizionamento?
Lo stesso esercizio si potrebbe estendere poi alle singole scene del film, e citerò qui solamente il caso più eclatante, la sua doppia conclusione: un primo finale lungo e stucchevole, in cui Barbie incontra la sua creatrice e matura la decisione di divenire umana dopo un montaggio di immagini che sembra provenire da una parodia del peggior Terrence Malick; e un secondo finale brevissimo, provocatorio, tagliente, in cui Barbie va a fare la prima visita ginecologica della sua vita. Rispettivamente frutto del sacco, come ogni evidenza, di Mattel e di Gerwig, anche queste due chiusure indicano come, in Barbie, non si sia riusciti ad arrivare a una sintesi.
Questo doppio finale mostra inoltre, in miniatura, quello che è un altro problema enorme del film: il ritmo. Alcune parti lo rallentano per fornire una serie di spiegoni, con concetti elementari ripetuti più e più volte nel timore, facilmente attribuibile a Mattel, che qualche passaggio non fosse sufficientemente comprensibile a chiunque. In altre parti l’andamento del film invece accelera, in alcuni casi fin troppo, come nel tentativo, questa volta di Gerwig, di recuperare il tempo perduto e trovare spazio per tutte le sue idee all’interno di un minutaggio accettabile. Arrivano allora sequenze travolgenti dove, tra balletti, scontri, inseguimenti e dialoghi infarciti di citazioni cinefile e più e meno pop (si tratta con ogni probabilità del primo blockbuster che nomina il frontman dei Pavement), si intersecano due parabole femministe parallele, quella delle Barbie contro lo strampalato patriarcato instaurato dai Ken, e quella speculare dei Ken nel mondo “alla rovescia” di Mattel. Il risultato è un’esperienza postmoderna, soprattutto nel senso deteriore del termine, in cui è sorprendente – o per meglio dire: sintomatico – veder portato avanti il discorso femminista senza mai un accenno, in mezzo a tanta attenzione chiarificatoria, al concetto di uguaglianza.
Quasi tutto ciò che è necessario sapere sul postmoderno è convenientemente racchiuso in un singolo libro, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, e allora tanto vale concludere con le parole del suo autore. Secondo Fredric Jameson è proprio questa la maniera postmoderna e capitalista “di trattare una controversia ideologica: portarla dentro il testo in modo tale che divenga parte della superficie piatta sulla quale sono disposti ed esibiti gli altri materiali”.
Fonte: Minimaetmoralia.It
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Nella marea di dichiarazioni che hanno seguito l’uscita nelle sale di Barbie ne ho trovata una di Greta Gerwig, riportata da Deadline, piuttosto interessante: «Nel film ci sono elementi oltraggiosi che fanno dire alla gente: “Oh, mio Dio, non posso credere che la Mattel ti abbia permesso di farlo” o “Non posso credere che la Warner Bros. ti abbia permesso di farlo”». Ciò che mi colpisce è come questa frase, nonostante sia volta a mettere in evidenza la libertà creativa di cui la regista ha goduto, ponga chiaramente in contrapposizione l’autrice e i suoi committenti, mettendo allo scoperto la duplice natura del film: opera terza scritta (col marito Baumbach) e diretta dall’eroina del cinema indipendente americano Gerwig, ma anche opera prima da 100 milioni di dollari della Mattel Films, nuova divisione cinematografica dell’azienda statunitense fortemente voluta dal suo CEO Kreiz.
Guardando un film pasticciato come Barbie è quasi possibile osservare gli sforzi che sono stati fatti per rispondere a esigenze creative e commerciali diverse, e tentare di farle convivere. In realtà, per quanto improbabile, il sodalizio tra Mattel e Gerwig si fondava sulle giuste premesse per poter funzionare: per l’azienda, provare a imporre Barbie come un simbolo di empowerment femminile era una scelta praticamente obbligata per riportare oggi il brand al centro dell’attenzione; e per la regista non fare un film totalmente disimpegnato era altrettanto inevitabile, per non tradire il proprio percorso artistico e non esporsi del tutto alle prevedibili accuse di essersi svenduta, che le sono comunque puntualmente arrivate. Dando dunque per assodata un’iniziale comunione d’intenti riguardo agli obiettivi, sono evidentemente emerse delle divergenze su come raggiungerli.
Può essere un esercizio divertente, e in alcuni casi anche piuttosto facile, associare vari elementi del film, alternativamente, a Gerwig o a Mattel. Tanto per cominciare, i personaggi: è difficile togliersi l’impressione che Ken, come si usa dire, rubi la scena a Barbie, per quanto ciò possa suonare paradossale. Non accade solo per merito di Ryan Gosling – che pure, più di chiunque altro nel cast, riesce a calarsi nella parte fino a sembrare fatto di plastica e non di carne, portando con sé un bagaglio abbastanza insospettabile di comicità espressa non solo con la mimica facciale ma con l’intero corpo, arrivando al punto di strappare una risata con la semplice flessione di un bicipite. A lui vengono affidate tutte le trovate più memorabili del film, dalla confusa comprensione di cosa sia il patriarcato alla maglietta “I am Kenough” già diventata un meme.
Ancor più incredibile e paradossale è che il film renda più agevole immedesimarsi in lui che nella protagonista. Se Barbie, nel mondo reale, scopre un maschilismo e una mascolinità tossica che è tristemente ben familiare anche al pubblico in sala, Ken, nel mondo di Barbie, vive un incubo di proporzioni inimmaginabili. Condannato da Mattel a vivere per l’eternità in un mondo in cui è perdutamente innamorato di Barbie e da lei infinitamente rifiutato, e dove in ogni caso gli sarà per sempre preclusa la possibilità di consumare il suo amore perché, com’è noto, a entrambi mancano i genitali, si trova in una situazione di una crudeltà sisifea, prometeica. Oppure, per non ricorrere alla mitologia greca e usare riferimenti più recenti, pare intrappolato in un’allucinazione da Chew-Z controllata da Mattel anziché da Palmer Eldritch; ad ogni modo, più ci ripenso, più mi sembra una delle cose più terrificanti mai viste al cinema, totalmente incongruente rispetto a gag e colori sgargianti (e qui davvero mi chiedo come abbiano permesso a Gerwig di farlo).
Margot Robbie si trova invece a dover interpretare un personaggio molto meno interessante, forse perché è Gerwig a non trovarvi lo stesso potenziale, forse perché è Mattel a forzare la mano per ottenere determinati risultati. L’idea di Gerwig è costruire una sorta di bildungsroman a partire da un momento ben preciso, quello in cui una ragazzina dice a Barbie più o meno ciò che tutto il mondo pensa della bambola, terminando il discorso dandole della fascista e facendole perdere ogni certezza riguardo alla propria identità. Nel film ci sono tante tiratine d’orecchio a Mattel, di quelle che qualsiasi brand accetta di buon grado per mostrarsi moderno, trasparente, consapevole delle proprie colpe e abbastanza onesto, se non altro, da ammetterle; ma il discorso della ragazzina va ben oltre: è un furbissimo punto e a capo nell’intera e decennale narrazione del marchio. Da quel momento in poi Barbie cambia, nel film e (perciò) nella realtà; o almeno così vorrebbe Mattel. L’operazione però è troppo sfacciata e – come se non fosse già abbastanza complicato mettere in scena il bildungsroman di un pupazzo di plastica – che credibilità può avere un racconto di formazione interamente sovrapponibile a un’operazione di marketing e di riposizionamento?
Lo stesso esercizio si potrebbe estendere poi alle singole scene del film, e citerò qui solamente il caso più eclatante, la sua doppia conclusione: un primo finale lungo e stucchevole, in cui Barbie incontra la sua creatrice e matura la decisione di divenire umana dopo un montaggio di immagini che sembra provenire da una parodia del peggior Terrence Malick; e un secondo finale brevissimo, provocatorio, tagliente, in cui Barbie va a fare la prima visita ginecologica della sua vita. Rispettivamente frutto del sacco, come ogni evidenza, di Mattel e di Gerwig, anche queste due chiusure indicano come, in Barbie, non si sia riusciti ad arrivare a una sintesi.
Questo doppio finale mostra inoltre, in miniatura, quello che è un altro problema enorme del film: il ritmo. Alcune parti lo rallentano per fornire una serie di spiegoni, con concetti elementari ripetuti più e più volte nel timore, facilmente attribuibile a Mattel, che qualche passaggio non fosse sufficientemente comprensibile a chiunque. In altre parti l’andamento del film invece accelera, in alcuni casi fin troppo, come nel tentativo, questa volta di Gerwig, di recuperare il tempo perduto e trovare spazio per tutte le sue idee all’interno di un minutaggio accettabile. Arrivano allora sequenze travolgenti dove, tra balletti, scontri, inseguimenti e dialoghi infarciti di citazioni cinefile e più e meno pop (si tratta con ogni probabilità del primo blockbuster che nomina il frontman dei Pavement), si intersecano due parabole femministe parallele, quella delle Barbie contro lo strampalato patriarcato instaurato dai Ken, e quella speculare dei Ken nel mondo “alla rovescia” di Mattel. Il risultato è un’esperienza postmoderna, soprattutto nel senso deteriore del termine, in cui è sorprendente – o per meglio dire: sintomatico – veder portato avanti il discorso femminista senza mai un accenno, in mezzo a tanta attenzione chiarificatoria, al concetto di uguaglianza.
Quasi tutto ciò che è necessario sapere sul postmoderno è convenientemente racchiuso in un singolo libro, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, e allora tanto vale concludere con le parole del suo autore. Secondo Fredric Jameson è proprio questa la maniera postmoderna e capitalista “di trattare una controversia ideologica: portarla dentro il testo in modo tale che divenga parte della superficie piatta sulla quale sono disposti ed esibiti gli altri materiali”.
Fonte: Minimaetmoralia.It
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Con delizia banchettiamo di coloro che vorrebbero assoggettarci.
Salva una Pianta, mangia un Vegano!
Un Mega Bacio alla mia cara Hunterus Heroicus KIM, Mishamiga in Winchester!
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Il Marvel Cinematic Universe non è più quello di una volta
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Nonostante prendesse il titolo da uno degli eventi più importanti nella storia di Marvel Comics e presentasse nel cast attori di primo piano come Samuel L. Jackson, Olivia Colman, Don Cheadle ed Emilia Clarke, Secret Invasion è risultato un vero e proprio flop per i Marvel Studios. La serie tv è stata la seconda meno vista tra quelle prodotte negli ultimi anni per Disney+ – davanti solo a Ms. Marvel – e ha inoltre ricevuto recensioni negative, sia da parte della critica che del pubblico (con uno dei peggiori punteggi di sempre su Rotten Tomatoes per lo studio).
Quello che c’è ora da chiedersi è se si tratti di un caso isolato o di un sintomo di qualcosa che non sta andando come dovrebbe. Probabilmente la risposta è la seconda, visto che già da qualche mese The Walt Disney Company è corsa ai ripari, riducendo le produzioni dei Marvel Studios per concentrarsi maggiormente sulla qualità, dopo che già Kevin Feige – il capo dei Marvel Studios – aveva sottolineato come, con così tante cose in uscita, fosse difficile mantenere sempre vivo lo zeitgeist.
Come fatto notare da Stuart Heritage sul Guardian, questo ha però lasciato Secret Invasion in una brutta situazione: «Come gli ultimi film della DC, che soffrivano tutti della consapevolezza di essere gli ultimi, inamovibili, ritardatari prima che il regista James Gunn arrivasse e facesse ordine, Secret Invasion è ora un totem del disfacimento del MCU. Quando persino i produttori annunciano che ci sono troppi show Marvel di scarsa qualità su Disney+, non viene proprio voglia di guardare l’ultimo».
«Alla fine, Secret Invasion è stato un flop. Ma va bene così. I flop capitano. Ma questo è il MCU, dove tutto è collegato» continua poi il giornalista. «Dicono che il finale di Secret Invasion si collegherà direttamente a The Marvels (in uscita quest’anno) e ad Armor Wars (ancora senza data di uscita), ma gli scarsi dati di ascolto e le recensioni negative fanno sì che la gente si avvicinerà a questi film con dati incompleti. Non avranno lo stesso senso, e tutto questo perché il pubblico non ha avuto il coraggio di sopportare sei ore di cattiva televisione. È un altro segno che il MCU, un tempo davvero emozionante e divertente, è diventato poco più che un compito da fare a casa. Se dovessimo basarci su Secret Invasion, il disfacimento sembra terminale.»
Lo stesso Heritage fa rientrare comunque il tutto in un trend negativo, sottolineando come l’intero Marvel Cinematic Universe sia in crisi: «La CGI è così scadente che i registi la deridono nei video promozionali, come ha fatto Taika Waititi per Thor: Love and Thunder. A loro volta, gli artisti che lavorano agli aspetti visivi dei film si lamentano di essere sovraccarichi di lavoro e di stress al servizio di registi che non sembrano sapere cosa vogliono. Nel frattempo, ex star come Elizabeth Olsen, Chris Hemsworth e Robert Downey Jr. stanno esprimendo pubblicamente sempre di più i dubbi sui loro ruoli».
Secondo Adam B. Vary di Variety, invece, «le stesse cose che hanno consentito allo studio di svettare negli anni 2010 sono diventate un peso opprimente negli anni 2020». Il riferimento è in particolare alla pesante continuity che si trascina da un film all’altro, passando per tutte le serie tv: «Secret Invasion voleva essere un thriller cospirazionista dai ritmi serrati che prendeva spunto dagli eventi di Captain Marvel per analizzare come Nick Fury fosse diventato così formidabile. Invece, è stato appesantito dagli eventi di Endgame e dall’apparente necessità di stipare il maggior numero possibile di riferimenti ai supereroi nel finale. Allo stesso modo, mentre i primi due film di Ant-Man erano stati dei capitoli relativamente autosufficienti, Ant-Man and the Wasp: Quantumania è stato appesantito dal lancio ufficiale del Kang di Jonathan Majors come Grande Cattivo della Multiverse Saga».
Un po’ quello che succede ai fumetti da ormai qualche decennio, tanto che in passato Marvel Comics ha spesso cercato di alleggerire la propria continuity con alcune operazioni editoriali (si pensi a Secret Wars del 2025, che darà il titolo a uno dei prossimi film degli Avengers) o rilanciare da zero i propri personaggi (come nel 2000 con la linea Ultimate, che è poi stata anche utilizzata come base dalle case di produzione di Hollywood).
In particolare, il giornalista ha mal sopportato le presenze di Valentina Allegra de Fontaine in Black Panther: Wakanda Forever, di Damage Control in Ms. Marvel e dei Guardiani della Galassia in Thor: Love and Thunder, perché a suo dire non era necessarie e anzi sviavano l’attenzione dal cuore delle storie. Come esempi virtuosi cita invece Guardiani della Galassia vol. 3 e Spider-Man: Across the Universe di Sony Pictures, che secondo lui sono andati bene al botteghino «perché si sono concentrati sugli archi emotivi dei loro personaggi invece di mettersi al servizio di un universo cinematografico più ampio e, cosa fondamentale, entrambi i film sembrano unici e offrono sensazioni diverse da tutti gli altri presenti sul mercato in questo momento».
Non si tratterebbe insomma di “fatica” da supereroi, insomma, ma semplicemente da pessimi blockbuster, come evidenzia anche Kelcie Mattson su Collider. La quale, dopo aver rilevato gli stessi problemi dei suoi colleghi, trova però giusta la strada scelta da Walt Disney e i Marvel Studios di ridurre le produzioni, indicando poi come modello valido quello del recente “Barbenheimer“: «Meno è più, perché gli autori hanno la possibilità di respirare, di creare qualcosa con cuore, grinta e arte. Inoltre, i fan non vedono l’ora di vedere il prossimo episodio, invece di storcere il naso di fronte all’ultimo bombardamento di marketing di Disney+. Se tutti gli studios hollywoodiani fossero intuitivi, il “Barbenheimer” sarebbe visto come un segno di una presa di coscienza da parte del pubblico. Barbie e Oppenheimer sono film evento con un livello irregolare di libertà creativa, e il pubblico ha risposto».
Per tutti – chi più, chi meno – la strada per Kevin Feige sembra essere in ogni caso in salita. «È improbabile che la Marvel della Disney riesca a ritrovare la buona volontà necessaria per riportare i propri film allo status di eventi significativi» conclude Mattson, pensando per esempio ad Avengers: Endgame. «Tuttavia, Guardiani della Galassia vol. 3 ha dimostrato che, se la storia è buona, un’impresa del genere non è impossibile. È ora che una delle più grandi case produttrici di denaro al mondo torni al tavolo da disegno e ricordi ciò che ha costruito il suo successo: semplicità, tempo e passione.»
Fonte: FumettoLogica.It
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Nonostante prendesse il titolo da uno degli eventi più importanti nella storia di Marvel Comics e presentasse nel cast attori di primo piano come Samuel L. Jackson, Olivia Colman, Don Cheadle ed Emilia Clarke, Secret Invasion è risultato un vero e proprio flop per i Marvel Studios. La serie tv è stata la seconda meno vista tra quelle prodotte negli ultimi anni per Disney+ – davanti solo a Ms. Marvel – e ha inoltre ricevuto recensioni negative, sia da parte della critica che del pubblico (con uno dei peggiori punteggi di sempre su Rotten Tomatoes per lo studio).
Quello che c’è ora da chiedersi è se si tratti di un caso isolato o di un sintomo di qualcosa che non sta andando come dovrebbe. Probabilmente la risposta è la seconda, visto che già da qualche mese The Walt Disney Company è corsa ai ripari, riducendo le produzioni dei Marvel Studios per concentrarsi maggiormente sulla qualità, dopo che già Kevin Feige – il capo dei Marvel Studios – aveva sottolineato come, con così tante cose in uscita, fosse difficile mantenere sempre vivo lo zeitgeist.
Come fatto notare da Stuart Heritage sul Guardian, questo ha però lasciato Secret Invasion in una brutta situazione: «Come gli ultimi film della DC, che soffrivano tutti della consapevolezza di essere gli ultimi, inamovibili, ritardatari prima che il regista James Gunn arrivasse e facesse ordine, Secret Invasion è ora un totem del disfacimento del MCU. Quando persino i produttori annunciano che ci sono troppi show Marvel di scarsa qualità su Disney+, non viene proprio voglia di guardare l’ultimo».
«Alla fine, Secret Invasion è stato un flop. Ma va bene così. I flop capitano. Ma questo è il MCU, dove tutto è collegato» continua poi il giornalista. «Dicono che il finale di Secret Invasion si collegherà direttamente a The Marvels (in uscita quest’anno) e ad Armor Wars (ancora senza data di uscita), ma gli scarsi dati di ascolto e le recensioni negative fanno sì che la gente si avvicinerà a questi film con dati incompleti. Non avranno lo stesso senso, e tutto questo perché il pubblico non ha avuto il coraggio di sopportare sei ore di cattiva televisione. È un altro segno che il MCU, un tempo davvero emozionante e divertente, è diventato poco più che un compito da fare a casa. Se dovessimo basarci su Secret Invasion, il disfacimento sembra terminale.»
Lo stesso Heritage fa rientrare comunque il tutto in un trend negativo, sottolineando come l’intero Marvel Cinematic Universe sia in crisi: «La CGI è così scadente che i registi la deridono nei video promozionali, come ha fatto Taika Waititi per Thor: Love and Thunder. A loro volta, gli artisti che lavorano agli aspetti visivi dei film si lamentano di essere sovraccarichi di lavoro e di stress al servizio di registi che non sembrano sapere cosa vogliono. Nel frattempo, ex star come Elizabeth Olsen, Chris Hemsworth e Robert Downey Jr. stanno esprimendo pubblicamente sempre di più i dubbi sui loro ruoli».
Secondo Adam B. Vary di Variety, invece, «le stesse cose che hanno consentito allo studio di svettare negli anni 2010 sono diventate un peso opprimente negli anni 2020». Il riferimento è in particolare alla pesante continuity che si trascina da un film all’altro, passando per tutte le serie tv: «Secret Invasion voleva essere un thriller cospirazionista dai ritmi serrati che prendeva spunto dagli eventi di Captain Marvel per analizzare come Nick Fury fosse diventato così formidabile. Invece, è stato appesantito dagli eventi di Endgame e dall’apparente necessità di stipare il maggior numero possibile di riferimenti ai supereroi nel finale. Allo stesso modo, mentre i primi due film di Ant-Man erano stati dei capitoli relativamente autosufficienti, Ant-Man and the Wasp: Quantumania è stato appesantito dal lancio ufficiale del Kang di Jonathan Majors come Grande Cattivo della Multiverse Saga».
Un po’ quello che succede ai fumetti da ormai qualche decennio, tanto che in passato Marvel Comics ha spesso cercato di alleggerire la propria continuity con alcune operazioni editoriali (si pensi a Secret Wars del 2025, che darà il titolo a uno dei prossimi film degli Avengers) o rilanciare da zero i propri personaggi (come nel 2000 con la linea Ultimate, che è poi stata anche utilizzata come base dalle case di produzione di Hollywood).
In particolare, il giornalista ha mal sopportato le presenze di Valentina Allegra de Fontaine in Black Panther: Wakanda Forever, di Damage Control in Ms. Marvel e dei Guardiani della Galassia in Thor: Love and Thunder, perché a suo dire non era necessarie e anzi sviavano l’attenzione dal cuore delle storie. Come esempi virtuosi cita invece Guardiani della Galassia vol. 3 e Spider-Man: Across the Universe di Sony Pictures, che secondo lui sono andati bene al botteghino «perché si sono concentrati sugli archi emotivi dei loro personaggi invece di mettersi al servizio di un universo cinematografico più ampio e, cosa fondamentale, entrambi i film sembrano unici e offrono sensazioni diverse da tutti gli altri presenti sul mercato in questo momento».
Non si tratterebbe insomma di “fatica” da supereroi, insomma, ma semplicemente da pessimi blockbuster, come evidenzia anche Kelcie Mattson su Collider. La quale, dopo aver rilevato gli stessi problemi dei suoi colleghi, trova però giusta la strada scelta da Walt Disney e i Marvel Studios di ridurre le produzioni, indicando poi come modello valido quello del recente “Barbenheimer“: «Meno è più, perché gli autori hanno la possibilità di respirare, di creare qualcosa con cuore, grinta e arte. Inoltre, i fan non vedono l’ora di vedere il prossimo episodio, invece di storcere il naso di fronte all’ultimo bombardamento di marketing di Disney+. Se tutti gli studios hollywoodiani fossero intuitivi, il “Barbenheimer” sarebbe visto come un segno di una presa di coscienza da parte del pubblico. Barbie e Oppenheimer sono film evento con un livello irregolare di libertà creativa, e il pubblico ha risposto».
Per tutti – chi più, chi meno – la strada per Kevin Feige sembra essere in ogni caso in salita. «È improbabile che la Marvel della Disney riesca a ritrovare la buona volontà necessaria per riportare i propri film allo status di eventi significativi» conclude Mattson, pensando per esempio ad Avengers: Endgame. «Tuttavia, Guardiani della Galassia vol. 3 ha dimostrato che, se la storia è buona, un’impresa del genere non è impossibile. È ora che una delle più grandi case produttrici di denaro al mondo torni al tavolo da disegno e ricordi ciò che ha costruito il suo successo: semplicità, tempo e passione.»
Fonte: FumettoLogica.It
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[Devi essere iscritto e connesso per vedere questa immagine] La Fretta è nemica della Perfezione!
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HENRY CAVILL: SENZA PIÙ SUPERMAN E THE WITCHER È PRONTO PER CAPITAN BRETAGNA ALLA MARVEL
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La carriera di Henry Cavill è arrivata ad un punto di stallo ora che l'attore ha perso sia il ruolo di Superman nel DCU sia la parte di Geralt di Rivia nella serie tv di Netflix The Witcher, ma i fan della Marvel non vedono l'ora di poterlo accogliere nel Marvel Cinematic Universe.
In effetti, qualche tempo fa, lo stesso Henry Cavill si era detto molto entusiasta all'idea di far parte del Marvel Universe quando, nel pieno dell'incertezza del suo futuro in casa DC, l'attore rispose ai rumor che lo volevano come possibile interprete di Capitan Bretagna nella saga Marvel.
"Non direi mai di voler interpretare un personaggio Marvel che è già stato affidato da qualcun altro, perché tutti gli attori di quel franchise stanno facendo un lavoro fantastico", aveva dichiarato Henry in un'intervista con The Hollywood Reporter, "tuttavia anche io ho internet e ho visto l'interesse dei fan per una versione di Capitan Bretagna interpretata da me. Devo dire che sarebbe molto divertente realizzare una versione moderna di quel personaggio, un po' come hanno modernizzato Captain America. C'è qualcosa di divertente in questa possibilità, e da inglese mi ci fionderei".
Sebbene non sia un eroe di alto livello, i fan chiedono da anni un debutto di Capitan Bretagna nel Marvel Cinematic Universe: nel fumetto omonimo del 1976 viene presentato Brian Braddock, un supereroe con poteri simili a Superman le cui storie però spesso spaziano nel fantasy e nella magia e presentano apparizioni di personaggi del calibro del Mago Merlino, che ha concesso al Capitano i suoi poteri.
Tra i prossimi progetti di Henry Cavill ricordiamo un reboot di Highlander e un possibile nuovo capitolo della saga di Enola Holmes.
Fonte: Cinema.EveryEye.It
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La carriera di Henry Cavill è arrivata ad un punto di stallo ora che l'attore ha perso sia il ruolo di Superman nel DCU sia la parte di Geralt di Rivia nella serie tv di Netflix The Witcher, ma i fan della Marvel non vedono l'ora di poterlo accogliere nel Marvel Cinematic Universe.
In effetti, qualche tempo fa, lo stesso Henry Cavill si era detto molto entusiasta all'idea di far parte del Marvel Universe quando, nel pieno dell'incertezza del suo futuro in casa DC, l'attore rispose ai rumor che lo volevano come possibile interprete di Capitan Bretagna nella saga Marvel.
"Non direi mai di voler interpretare un personaggio Marvel che è già stato affidato da qualcun altro, perché tutti gli attori di quel franchise stanno facendo un lavoro fantastico", aveva dichiarato Henry in un'intervista con The Hollywood Reporter, "tuttavia anche io ho internet e ho visto l'interesse dei fan per una versione di Capitan Bretagna interpretata da me. Devo dire che sarebbe molto divertente realizzare una versione moderna di quel personaggio, un po' come hanno modernizzato Captain America. C'è qualcosa di divertente in questa possibilità, e da inglese mi ci fionderei".
Sebbene non sia un eroe di alto livello, i fan chiedono da anni un debutto di Capitan Bretagna nel Marvel Cinematic Universe: nel fumetto omonimo del 1976 viene presentato Brian Braddock, un supereroe con poteri simili a Superman le cui storie però spesso spaziano nel fantasy e nella magia e presentano apparizioni di personaggi del calibro del Mago Merlino, che ha concesso al Capitano i suoi poteri.
Tra i prossimi progetti di Henry Cavill ricordiamo un reboot di Highlander e un possibile nuovo capitolo della saga di Enola Holmes.
Fonte: Cinema.EveryEye.It
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CAPTAIN AMERICA 4, ANTHONY MACKIE: "I FILM MARVEL ORMAI SONO COME UN CAMPO ESTIVO"
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Anthony Mackie non sa cosa sia il multiverso, ma non possiamo certo dire che l'attore di Avengers: Age of Ultron, Ant-Man e del film di prossima uscita Captain America: Brave New World ignori i meccanismi della Marvel: a un decennio dal debutto, infatti, Mackie ha realizzato che l'MCU assomigli a un grosso "campo estivo".
"Questi film Marvel si sono trasformati in un campo estivo" ha dichiarato. "Vai sul set, e ci sono persone che conosci da 10, 12 anni, con le quali hai già lavorato in passato. Hanno figli, divorziano, comprano case. È come una rimpatriata tra vecchi amici".
Inoltre, l'attore ha caricato la pellicola di una forte componente personale. "In un certo senso" ha aggiunto, "ha riportato la mia esperienza Marvel al punto di partenza, perché abbiamo girato a Washington, nello stesso hotel utilizzato per Winter Soldier. In una delle mie prime scene, ero seduto a un tavolo mentre parlavo col senatore, e io, Chris [Evans] e Scarlett [Johansson] lo rapivamo, poi tornavamo indietro e giravamo nella stessa zona. Insomma, è stato davvero emozionante pensare fino a dove si è spinto il tuo personaggio, e dove si trova ora, dopo ben 10 anni trascorsi nel MCU"
Ha definito perciò il lavoro sul set come una "grande esperienza" al punto che "era una specie di droga sedersi fuori dalla casa bianca, fumare un sigaro e bere whisky con la mia troupe, il tutto mentre guardavano l'alba".
Captain America: Brave New World (precedentemente nominato New World Order) è il trentacinquesimo film del Marvel Cinematic Universe e vedrà Wilson di Mackie diventare il successore di Steve Rogers.
Fonte: Cinema.EveryEye.It
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Anthony Mackie non sa cosa sia il multiverso, ma non possiamo certo dire che l'attore di Avengers: Age of Ultron, Ant-Man e del film di prossima uscita Captain America: Brave New World ignori i meccanismi della Marvel: a un decennio dal debutto, infatti, Mackie ha realizzato che l'MCU assomigli a un grosso "campo estivo".
"Questi film Marvel si sono trasformati in un campo estivo" ha dichiarato. "Vai sul set, e ci sono persone che conosci da 10, 12 anni, con le quali hai già lavorato in passato. Hanno figli, divorziano, comprano case. È come una rimpatriata tra vecchi amici".
Inoltre, l'attore ha caricato la pellicola di una forte componente personale. "In un certo senso" ha aggiunto, "ha riportato la mia esperienza Marvel al punto di partenza, perché abbiamo girato a Washington, nello stesso hotel utilizzato per Winter Soldier. In una delle mie prime scene, ero seduto a un tavolo mentre parlavo col senatore, e io, Chris [Evans] e Scarlett [Johansson] lo rapivamo, poi tornavamo indietro e giravamo nella stessa zona. Insomma, è stato davvero emozionante pensare fino a dove si è spinto il tuo personaggio, e dove si trova ora, dopo ben 10 anni trascorsi nel MCU"
Ha definito perciò il lavoro sul set come una "grande esperienza" al punto che "era una specie di droga sedersi fuori dalla casa bianca, fumare un sigaro e bere whisky con la mia troupe, il tutto mentre guardavano l'alba".
Captain America: Brave New World (precedentemente nominato New World Order) è il trentacinquesimo film del Marvel Cinematic Universe e vedrà Wilson di Mackie diventare il successore di Steve Rogers.
Fonte: Cinema.EveryEye.It
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QUELLA VOLTA CHE HAYAO MIYAZAKI MINACCIÒ HARVEY WEINSTEIN CON UNA SPADA DA SAMURAI
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Il nome di Hayao Miyazaki è tornato caldissimo in queste ore dopo la pubblicazione delle prime immagini di How do you live, ultimo film del maestro giapponese uscito finora solo in Giappone e senza né trailer né poster promozionali, ma la sua leggenda ha fatto la storia del cinema per decenni.
Oltre i capolavori che ha lasciato in eredità lungo una carriera di oltre cinquant'anni, gli aneddoti sul suo conto si sprecano e oggi vogliamo raccontarvene uno in particolare: quella volta che Hayao Miyazaki minacciò Harvey Weinstein con una spada da samurai.
Il fatto risale al 1996, quando la storica casa di produzione giapponese Studio Ghibli firmò un accordo con la Disney per la distribuzione negli Stati Uniti delle versioni doppiate in inglese dei propri film: uno di questi film, Princess Mononoke, venne assegnato alla sussidiaria della Disney Miramax, gestita proprio da Harvey Weinstein, cosa che di conseguenza portò Miyazaki, co-fondatore dello Studio Ghibli e regista di Princess Mononoke, a collaborare con il famigerato produttore in vista dell'uscita della sua opera sul mercato nord-americano. Ma a differenza di altri registi, Miyazaki non si fece intimidire dal noto atteggiamento tirannico di Weinstein, e per mettere le cose in chiaro fin da subito si servì nientemeno che di una katana.
Stando ai resoconti, infatti, Miyazaki spedì a Weinstein una spada da samurai facendola recapitare nello studio del produttore insieme ad una nota che intimava: "Non si taglia niente". Il riferimento era al fatto che Weinstein aveva detto all'autore giapponese di ridurre la durata di Princess Mononoke da 135 minuti a 90 minuti, al fine di ottenere più proiezioni giornaliere del film nelle sale e massimizzare gli incassi. Il rifiuto affilato di Miyazaki fece infuriare Weinstein, che se la prese con l'ex dirigente dello Studio Ghibli Steve Alpert: “Mi disse che se non fossi riuscito a convincere Miyazaki a tagliare 'quel cazzo di film', non avremmo 'mai più lavorato in questa cazzo di industria'", dichiarò in un'intervista il produttore.
Tuttavia, Miyazaki deteneva tutti i diritti di Princess Mononoke e poté beatamente ignorare i capricci (e le minacce) di Harvey Weinstein: alla fine il capolavoro animato del 1997 incassò 170 milioni a livello globale, e anni dopo Miyazaki dichiarò con orgoglio di aver "sconfitto" Weinstein nel loro braccio di ferro.
How do you live, noto anche col titolo internazionale di The Boy and the Heron, non ha ancora una data d'uscita per il mercato italiano. Nell'ultimo mese, How do you live è diventato uno dei più grandi successi di sempre al box office giapponese.
Fonte: Cinem.EveryEye.It
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Il nome di Hayao Miyazaki è tornato caldissimo in queste ore dopo la pubblicazione delle prime immagini di How do you live, ultimo film del maestro giapponese uscito finora solo in Giappone e senza né trailer né poster promozionali, ma la sua leggenda ha fatto la storia del cinema per decenni.
Oltre i capolavori che ha lasciato in eredità lungo una carriera di oltre cinquant'anni, gli aneddoti sul suo conto si sprecano e oggi vogliamo raccontarvene uno in particolare: quella volta che Hayao Miyazaki minacciò Harvey Weinstein con una spada da samurai.
Il fatto risale al 1996, quando la storica casa di produzione giapponese Studio Ghibli firmò un accordo con la Disney per la distribuzione negli Stati Uniti delle versioni doppiate in inglese dei propri film: uno di questi film, Princess Mononoke, venne assegnato alla sussidiaria della Disney Miramax, gestita proprio da Harvey Weinstein, cosa che di conseguenza portò Miyazaki, co-fondatore dello Studio Ghibli e regista di Princess Mononoke, a collaborare con il famigerato produttore in vista dell'uscita della sua opera sul mercato nord-americano. Ma a differenza di altri registi, Miyazaki non si fece intimidire dal noto atteggiamento tirannico di Weinstein, e per mettere le cose in chiaro fin da subito si servì nientemeno che di una katana.
Stando ai resoconti, infatti, Miyazaki spedì a Weinstein una spada da samurai facendola recapitare nello studio del produttore insieme ad una nota che intimava: "Non si taglia niente". Il riferimento era al fatto che Weinstein aveva detto all'autore giapponese di ridurre la durata di Princess Mononoke da 135 minuti a 90 minuti, al fine di ottenere più proiezioni giornaliere del film nelle sale e massimizzare gli incassi. Il rifiuto affilato di Miyazaki fece infuriare Weinstein, che se la prese con l'ex dirigente dello Studio Ghibli Steve Alpert: “Mi disse che se non fossi riuscito a convincere Miyazaki a tagliare 'quel cazzo di film', non avremmo 'mai più lavorato in questa cazzo di industria'", dichiarò in un'intervista il produttore.
Tuttavia, Miyazaki deteneva tutti i diritti di Princess Mononoke e poté beatamente ignorare i capricci (e le minacce) di Harvey Weinstein: alla fine il capolavoro animato del 1997 incassò 170 milioni a livello globale, e anni dopo Miyazaki dichiarò con orgoglio di aver "sconfitto" Weinstein nel loro braccio di ferro.
How do you live, noto anche col titolo internazionale di The Boy and the Heron, non ha ancora una data d'uscita per il mercato italiano. Nell'ultimo mese, How do you live è diventato uno dei più grandi successi di sempre al box office giapponese.
Fonte: Cinem.EveryEye.It
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Salva una Pianta, mangia un Vegano!
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JOHN WICK 5 SI FARÀ OPPURE NO? TUTTO SUL FUTURO DELLA SAGA CON KEANU REEVES
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John Wick 5 si farà oppure no? Sebbene Lionsgate abbia dei piani ben delineati per il franchise action creato da Chad Stahelski con nuovi film spin-off e serie tv, il futuro della saga madre capitanata da John Wick è ancora molto incerto.
John Wick 5 venne annunciato originariamente insieme a John Wick 4, con la produzione che prima del covid contava di realizzare i due film back-to-back: successivamente i piani sono cambiati, e John Wick 4 ha finito con l'includere nelle sue quasi tre ore di durata molte idee previste inizialmente per il quinto episodio (in sostanza i due progetti sarebbero stati una sorta di Parte Uno e Parte Due, poi incorporati in un unico film). In una vecchia intervista esclusiva con The Direct, il regista Chad Stehelski si è detto disposto a fare John Wick 5, aggiungendo però: "Riteniamo di aver messo tutto ciò che avevamo in John Wick 4 e sentiamo di aver completato il ciclo. L'idea è di essere arrivati alla fine e siamo soddisfatti di ciò che abbiamo fatto."
Tuttavia il presidente di Lionsgate Joe Drake ha dichiarato durante una chiamata sugli utili del 2023 che John Wick 5 è ufficialmente in fase di sviluppo, sottolineando che i fan possono aspettarsi "nuove uscite della saga di John Wick a cadenza regolare" in futuro: questo perché nei prossimi mesi uscirà su Prime Video la serie tv prequel The Continental, mentre nel 2024 arriverà il primo film spin-off Ballerina, con protagonista Ana de Armas e il ritorno di Keanu Reeves nei panni di John Wick (il film sarà ambientato tra gli eventi di John Wick 3 e John Wick 4). Inoltre, la Lionsgate ha dichiarato che oltre a Ballerina il team sta sviluppando altri tre film, uno dei quali è appunto John Wick 5: attualmente, gli altri due titoli spin-off in lavorazione rimangono segreti.
Fonte: Cinema.EveryEye.It
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John Wick 5 si farà oppure no? Sebbene Lionsgate abbia dei piani ben delineati per il franchise action creato da Chad Stahelski con nuovi film spin-off e serie tv, il futuro della saga madre capitanata da John Wick è ancora molto incerto.
John Wick 5 venne annunciato originariamente insieme a John Wick 4, con la produzione che prima del covid contava di realizzare i due film back-to-back: successivamente i piani sono cambiati, e John Wick 4 ha finito con l'includere nelle sue quasi tre ore di durata molte idee previste inizialmente per il quinto episodio (in sostanza i due progetti sarebbero stati una sorta di Parte Uno e Parte Due, poi incorporati in un unico film). In una vecchia intervista esclusiva con The Direct, il regista Chad Stehelski si è detto disposto a fare John Wick 5, aggiungendo però: "Riteniamo di aver messo tutto ciò che avevamo in John Wick 4 e sentiamo di aver completato il ciclo. L'idea è di essere arrivati alla fine e siamo soddisfatti di ciò che abbiamo fatto."
Tuttavia il presidente di Lionsgate Joe Drake ha dichiarato durante una chiamata sugli utili del 2023 che John Wick 5 è ufficialmente in fase di sviluppo, sottolineando che i fan possono aspettarsi "nuove uscite della saga di John Wick a cadenza regolare" in futuro: questo perché nei prossimi mesi uscirà su Prime Video la serie tv prequel The Continental, mentre nel 2024 arriverà il primo film spin-off Ballerina, con protagonista Ana de Armas e il ritorno di Keanu Reeves nei panni di John Wick (il film sarà ambientato tra gli eventi di John Wick 3 e John Wick 4). Inoltre, la Lionsgate ha dichiarato che oltre a Ballerina il team sta sviluppando altri tre film, uno dei quali è appunto John Wick 5: attualmente, gli altri due titoli spin-off in lavorazione rimangono segreti.
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