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Spartacus
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Re: Spartacus
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Re: Spartacus
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Re: Spartacus
Marcus
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SCHEDA TECNICA
NOME: Marcus
PROFESSIONE: Allievo Gladiatore nel Ludus di Batiato
POPOLO: Romano
CORPORATURA: Alto e muscoloso, occhi azzurri e capelli neri
RELAZIONI: Quinto Lentulus Batiato (Padrone) Enomao (Maestro)
ATTORE: Kyle Pryor
Marcus è una recluta acquistata da Batiato che raggiunge il Ludus insieme a Spartacus, è apparso esclusivamente in Spartacus: Sangue e Sabbia.
ASPETTO
Marcus appare con la tipica fisionomia romana, è un ragazzo abbastanza alto, muscoloso e proporzionato, non possiede particolari caratteristiche a parte gli occhi azzurro chiaro ed i capelli molto corti, di colore nero e portati interamente sul davanti a ricoprire la fronte.
ABILITA' DI COMBATTIMENTO
Nonostante il suo desiderio di diventare un gladiatore ed essersi allenato con impegno, le qualità combattive di Marcus restano comunque di un livello molto scarso, infatti nel suo primo incontro ufficiale contro Barca, nel test finale per l'acquisizione del Marchio della Confraternita, viene ucciso dal compagno soltanto con un unico fendente.
Fonte: Spartacus Wiki
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ASPETTO
Marcus appare con la tipica fisionomia romana, è un ragazzo abbastanza alto, muscoloso e proporzionato, non possiede particolari caratteristiche a parte gli occhi azzurro chiaro ed i capelli molto corti, di colore nero e portati interamente sul davanti a ricoprire la fronte.
ABILITA' DI COMBATTIMENTO
Nonostante il suo desiderio di diventare un gladiatore ed essersi allenato con impegno, le qualità combattive di Marcus restano comunque di un livello molto scarso, infatti nel suo primo incontro ufficiale contro Barca, nel test finale per l'acquisizione del Marchio della Confraternita, viene ucciso dal compagno soltanto con un unico fendente.
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Re: Spartacus
LA CONDIZIONE SCHIAVILE NELLA ROMA ANTICA
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Le cause
Lo schiavo è una cosa, una res vivente, uno "strumento o animale parlante". Lo è dal IV millennio a.C., a partire dalle civiltà egizie e sumera.
In latino schiavo si dice servus, ma gli storici, per distinguere il feudalesimo dallo schiavismo, usano "schiavo" per l'economia schiavile rivolta al mercato, e "servo" per indicare l'economia di sussistenza basata sul servaggio o servitù della gleba. Finito il feudalesimo, la parola "servo" stava ad indicare una qualunque persona libera che prestava un servizio.
Nella civiltà romana la condizione di schiavo rientrava in quella più generale dipendenza che il cittadino romano riservava allo straniero, l'uomo alla donna, il padre al figlio.
Si diventava schiavi sostanzialmente per due motivi:
Ma lo si poteva diventare anche a seguito di un naufragio o di una pena che comportasse la perdita della libertà personale (p.es. l'assassinio o la renitenza alla leva o l'evasione fiscale), a meno che non si accettasse l'esilio. La gente povera spesso finiva schiava anche per reati minimi, se non poteva pagare una pena pecuniaria.
E non si devono dimenticare le persone rapite dai pirati o dai briganti per essere poi vendute, né i bambini che venivano abbandonati (perché non riconosciuti dal padre) o venduti dalle famiglie povere.
Poteva anche darsi il caso di esiliati politici che emigravano a Roma per porsi in servitù, o quelle tribù nordiche che facevano la stessa cosa, spinte dalla fame o dalla carestia.
Da ultimo non si può non considerare che un commercio estero, internazionale, di schiavi esisteva anche prima che i romani diventassero una grande potenza.
Nessuna filosofia egualitaria dell'antichità riuscì mai a scalfire questa diffusa cultura dello sfruttamento del lavoro altrui.
La compravendita
Gli schiavi venivano venduti nelle botteghe, sui mercati o nel Foro, sotto la sorveglianza di appositi magistrati, a tutela dei rilevanti profitti statali.
Generalmente stavano su un palco girevole, con al collo un cartello che indicava la nazionalità, le attitudini, le qualità, i difetti. Quelli provenienti d'oltremare erano riconoscibili per un piede tinto di bianco e i soldati vinti per una coroncina in testa. Schiavi scelti e costosi venivano mostrati in sale chiuse a ingresso controllato.
I prezzi variavano a seconda dell'età e delle qualità (intelligenza, cultura, forza fisica ma anche bellezza, buona dentatura, capacità di suonare o cantare, parlare greco) e si aggiravano sui 1.200-2.500 sesterzi (a fine repubblica un sesterzio equivaleva a circa 2 euro).
Anche ai romani di mezzi modesti piaceva avere uno schiavo al proprio servizio, perché non averne neppure uno era indizio di degradante miseria. Molti ricchi romani possedevano da 10.000 a 20.000 schiavi.
I romani più ricchi potevano anche acquistare stare per rivenderli o cederli a grosse imprese in cambio di un affitto. Sotto questo aspetto alcuni arrivarono persino ad allevarli.
Le mansioni
Una volta fatto schiavo, i luoghi prevalenti di destinazione dove esercitare il mestiere erano in aree abbastanza separate: campagna, città, mare (i rematori nelle navi da guerra o di commercio), cave e miniere (soprattutto per l'estrazione dei metalli pregiati).
La schiavitù rurale era quella che comprendeva i braccianti, i contadini, gli allevatori. Questi schiavi godevano di condizioni di vita infime. Il loro lavoro era molto faticoso e poco qualificato. Il trasferimento dalla famiglia urbana a quella rustica veniva considerato come una punizione. A capo degli schiavi di campagna era il fattore, assistito dalla moglie.
In città invece venivano impiegati per attività artigianali: vasai, decoratori, carpentieri, muratori, lavoratori del cuoio, o industriali (fabbricare tessuti). Questi schiavi godevano di condizioni di vita migliori e il loro lavoro era più qualificato. Ma vi erano anche quelli dediti alla costruzione di strade e alle opere pubbliche, o quelli che dovevano far girare in catene la ruota del mulino, che sicuramente svolgevano lavori molto più duri.
Le categorie privilegiate di schiavi erano quelle destinate al servizio domestico (cuochi, camerieri, gli addetti alla toeletta dei padroni, alla cura e all'educazione dei loro figli, alla pulizia della casa e della suppellettile, degli indumenti, gli amanuensi e postini), nonché quelle che aiutavano il padrone nelle attività commerciali (tesoriere, contabile, addetto alla tenuta dei libri), oppure gli schiavi intellettuali, quali pedagoghi, medici e chirurghi, bibliotecari, senza tralasciare gli addetti a scuderie e cavalli.
In genere gli schiavi provenienti dall'oriente ellenistico erano adibiti a funzioni domestiche (anche come maestri dei figli dell'aristocrazia) o artigianali cittadine, perché meno robusti e più acculturati dei loro colleghi italici, germanici, iberici.
I diritti
Lo schiavo, per definizione, non aveva alcun diritto, ma solo responsabilità penali. Non poteva possedere cose personali, cioè se poteva comprare qualcosa non poteva però disporre come fosse di sua proprietà. Se aveva moglie e figli, il suo padrone poteva venderli senza nessun problema.
Lo schiavo restava tale anche se per un evento qualunque cessava di avere un padrone.
Lo schiavo, di regola, non poteva sposarsi (Catone il Vecchio fu l'unico a permettere, tra i suoi servi, rapporti sessuali a pagamento intascandone il prezzo), non poteva essere difeso dalla legge o ascoltato in un tribunale. Tuttavia, nel corso dell'impero i padroni di schiavi tendevano a permettere a quest'ultimi la possibilità di una stabile vita di coppia. E' altresì noto che i padroni avevano maggiori riguardi per gli schiavi nati in casa.
Gli schiavi che ritenevano ingiusto il padrone potevano rifugiarsi in Campidoglio ed esporre le proprie ragioni, ma non si ha notizia di padroni puniti. Gli veniva concesso asilo se si rifugiava presso un tempio, ma al massimo poteva passare di proprietà da un padrone a un altro.
Se un cittadino uccideva uno schiavo altrui, non incorreva a una sanzione penale ma solo amministrativa, cioè pagava una sanzione monetaria corrispondente al valore dello schiavo.
La legge Giulia aveva altresì stabilito che non poteva esservi adulterio o stupro se non tra persone libere. Molti giovani schiavi venivano usati a scopi sessuali.
Però la lex Petronia proibiva al padrone di dare lo schiavo in pasto alle belve senza una sentenza del giudice.
Il diritto romano non riconosceva agli schiavi un culto religioso proprio, ma gli si consentiva di esercitare alcuni riti secondo i costumi originari.
Gli schiavi di città erano sicuramente più liberi di quelli di campagna: potevano frequentare le osterie, i bagni pubblici, il circo...
A volte capitava che per esigenze particolari (guerre, ordine pubblico) si accettassero arruolamenti negli eserciti da parte di schiavi e barbari: in tal caso lo schiavo otteneva subito la libertà e il diritto a sposare le vedove dei caduti di guerra.
Solo dopo Adriano lo schiavo, coi suoi piccoli risparmi, con le mance, ha diritto di farsi un gruzzolo di denaro con cui affrancarsi, ma soltanto nella tarda età imperiale la legge ordinerà ai padroni di concedere l'affrancamento, dopo aver soddisfatto i loro diritti di proprietario.
Gli schiavi, veri e propri "strumenti di produzione", quando la vecchiaia, gli stenti, le malattie li rendevano improduttivi, dato che difficilmente il padrone trovava un compratore, venivano abbandonati a se stessi e lasciati lentamente morire. A meno che non fossero in grado di riscattarsi diventando liberti. Claudio ordinò l'emancipazione degli schiavi malati abbandonati dal padrone.
Evoluzione
Nei primi secoli di vita della città romana gli schiavi erano inseriti nel sistema patriarcale, nel senso che il lavoro nei campi era svolto dallo stesso pater familias, aiutato sia dai figli che dagli schiavi. Gli schiavi erano considerati persone di famiglia, anche se ovviamente senza alcun diritto.
All'inizio del II sec. a.C. raramente le famiglie romane possedevano più di uno schiavo, ma verso la fine dello stesso secolo, soprattutto dopo la fine delle guerre puniche, il numero della popolazione servile era talmente aumentato da alterare i rapporti tra schiavo e padrone.
Il mercato degli schiavi era ormai divenuto una delle attività commerciali più produttive del Mediterraneo (questo perché i ricchi proprietari terrieri avevano continuamente bisogno di una crescente manodopera). Il più grande mercato venne organizzato nell’isola di Delo, dove nei tempi più proficui si potevano vendere, mediamente, 10.000 schiavi al giorno.
L’estendersi dell’economia schiavistica ebbe conseguenze negative per la popolazione italica, non solo perché frenava lo sviluppo tecnologico, ma anche perché tendeva ad aumentare la disoccupazione. Al tempo dell'imperatore Domiziano poteva sembrare più accettabile la posizione di uno schiavo al servizio di un ricco che non quella di un cittadino libero privo di proprietà.
Nel II sec. d.C. famiglie con uno schiavo solo non esistevano più: o non ne compravano affatto perché costava troppo mantenerli, oppure ne possedevano molti di più. Due era il numero minimo, ma la media era di otto.
Il livello di benessere, il prestigio pubblico, l'onorabilità, la quantità e la qualità dei servizi privati, in casa e fuori, erano in proporzione alla quantità e qualità di schiavi posseduti. Il prestigio di un avvocato, p.es., era determinato, presso il suo cliente, dalla scorta di schiavi con cui si presentava in tribunale.
Plinio il Giovane (età di Traiano), che si dichiarava uomo di modesta ricchezza, ne possedeva almeno 500, e di questi volle affrancarne almeno 100 nel suo testamento.
Il massimo dei riscatti consentiti dalla legge Fufia Canina, dell'8 a.C., era di 1/5 del totale degli schiavi posseduti.
Nell'età imperiale Adriano tolse al padrone dello schiavo il diritto di vita e di morte, e Antonino Pio e Costantino considerarono omicidio l'assassinio del servo e punirono chi uccideva un figlio con le stesse pene di chi uccideva il padre.
Con altre disposizioni si permise allo schiavo di mettere da parte, coi suoi risparmi, una somma che gli servisse per qualche spesa voluttuaria o gli permettesse di riscattarsi, quando non era lo stesso padrone, spontaneamente, a liberarlo.
Provenienza geografica
Durante il periodo della conquista romana dei paesi del Mediterraneo (264-31 a.C.) furono condotti schiavi a Roma e in Italia:
Ma in complesso il numero degli schiavi diminuisce.
Nel periodo della crisi dell'impero (192 - 476 d.C.), con l'anarchia militare e i saccheggi, c'è riduzione di nuove popolazioni in schiavitù, ma nel complesso il numero degli schiavi tende a diminuire, non solo perché ha termine l'espansione dell'impero, ma anche perché si cerca di trasformare la schiavitù in colonato o in servaggio, sulla base di un contratto.
A Roma, su una popolazione che poteva andare da mezzo milione a 1,5 milione di abitanti, gli schiavi erano da 100.000 (II sec. a.C.) a mezzo milione (II sec. d.C.). Quando la capienza di Roma fu massima, circa 400.000 persone libere di nascita vivevano con l'assistenza della pubblica annona e solo 100.000 capifamiglia erano in grado di provvedere alle necessità della famiglia con rendite proprie.
Difficile dire il numero dei liberti, degli stranieri, dei militari, della classe media. Si pensa che nella Roma imperiale almeno l'80% della popolazione provenisse da origine servile più o meno remota.
L'ordine senatoriale comprendeva circa 600 famiglie, mentre quello equestre circa 5.000, quindi in tutto le persone più influenti o più ricche che disponeva del maggior numero di schiavi erano circa 20-25.000. La domus di un consolare romano del tempo di Nerone poteva ospitare anche 400 schiavi. Un imperatore poteva disporre anche di 20.000 schiavi.
Forme di riscatto
L'emancipazione dalla condizione schiavile era solita avvenire in tre forme previste dal diritto civile:
La situazione degli schiavi così liberati venne regolata dalla legge Iunia Norbana del 19 a.C., in base alla quale essi potevano disporre di beni propri, anche se non potevano lasciarli in testamento; sicché i loro beni tornavano all'antico padrone. Tale limitazione verrà tolta dall'imperatore Giustiniano.
Dopo la manumissio il padrone (dominus) diventava patronus, cioè protettore del liberto. Il nuovo vincolo comportava l'obbligo reciproco degli alimenti, l'obbligo di prestazioni gratuite di manodopera da parte del liberto e altre cose che in sostanza si presentavano come anticamera dei medievali rapporti di servaggio.
Lo Stato comunque temeva un'eccessiva liberazione di schiavi, perché sapeva bene ch'essi avrebbero ingrossato la massa della plebe, il cui mantenimento gravava sulla pubblica annona. Di qui la limitazione al 5% del totale posseduto, nonché il divieto di liberare schiavi sotto i 18 anni o il divieto di riscattarsi prima dei 30. D'altra parte gli stessi imperatori impedirono più volte, con la cancellazione dei debiti, che masse di debitori cadessero in schiavitù per insolvenza.
I liberti
Uno schiavo affrancato era detto "liberto". E l'età adatta a riscattarsi si aggirava sui 30 anni.
Poteva infatti accadere che quando i cittadini liberi erano impegnati nelle guerre di conquista, gli schiavi dovessero svolgere in patria delle mansioni di una certa responsabilità (gestione di un'azienda, di un'attività economica, di un'abitazione padronale). In tali casi il padrone poteva concedere spontaneamente la condizione di "liberto", oppure lo schiavo poteva riscattarsi pagando un certo prezzo e continuando a lavorare presso il padrone sulla base di un contratto.
D'altra parte i senatori, non potendo fare commerci in senso proprio, avevano necessità di servirsi di liberti, che spesso praticavano l'usura e persino il commercio di schiavi.
Il liberto poteva anche svolgere un'attività economica indipendente, ma il padrone esigeva sempre delle corvées sui suoi terreni o nella sua abitazione, oppure pretendeva dei doni in occasione di festività.
Generalmente i liberti continuavano ad abitare presso la casa padronale.
I liberti venivano ammessi alla distribuzione gratuita di frumento, alimenti vari, denaro.
I liberti non avevano gli stessi diritti dei cittadini liberi (p.es. erano esclusi dai diritti politici), ma avevano il diritto di cittadinanza. Tuttavia i suoi discendenti, alla terza generazione, diventavano cittadini romani con la pienezza di tutti i diritti.
Qui si può ricordare che i cittadini romani non solo potevano esercitare i diritti politici, ma potevano essere condannati a morte solo da un’assemblea cittadina e non da un qualunque magistrato, come accadeva a chi non era romano. Inoltre non potevano essere sottoposti a tortura fisica e fustigazione. I funzionari e gli amministratori imperiali dovevano essere romani: per gli appartenenti alle classi più elevate dei territori conquistati, la cittadinanza era la sola via per far parte dei gruppi dirigenti.
Gli stessi imperatori, diffidando delle classi al potere, già corruttrici della repubblica, diedero loro incarichi di fiducia (spesso connessi al fisco). Il che poteva aiutare gli imperatori a dimostrare il carattere democratico delle istituzioni. L'ufficio politico dell'imperatore Claudio era composto esclusivamente di schiavi di fiducia, che, dopo la sua morte, furono sostituiti da liberti, molti dei quali si erano arricchiti notevolmente sin dal tempo delle guerre civili sillane.
Quando, nel 40 d.C., l’imperatore Claudio propose di dare ad alcuni galli la possibilità di diventare magistrati e senatori, vi fu in Senato chi sostenne che Roma non aveva bisogno degli stranieri per ricoprire posti di governo. Tuttavia, la tesi che prevalse, riportata da Tacito, fu la seguente: "A qualche altra causa si deve la rovina degli spartani e degli ateniesi, nonostante il loro valore bellico, se non alla loro ostinazione a tenere in disparte gli stranieri?. Al contrario, Romolo, che fondò il nostro impero, fu abbastanza saggio da saper trattare nello stesso giorno gli stessi popoli da nemici e da cittadini. Degli stranieri hanno regnato su di noi, i figli di liberti possono diventare magistrati, e questa non è una novità, come si ha il torto di credere: l’antica Roma ne ha dato molti esempi".
Augusto arrivò ad autorizzare i matrimoni tra liberi e liberti. Tiberio diede la cittadinanza ai liberti pompieri antincendio a condizione che si arruolassero nell'esercito. Claudio la concesse ai liberti che coi loro risparmi avessero armato le navi commerciali. Nerone a quelli che avessero impiegato capitali nell'edilizia e Traiano a quelli che avessero aperto dei forni.
Si conoscono rinomati liberti: Antonia Filematio, al servizio degli Antoni nel 13 a.C., capace di fare affari in Egitto; G. Cecilio Isidoro che nell'8 a.C. possedeva enormi latifondi e 4116 schiavi; Roscio, commediante, che ricevette da Silla l'alta onorificenza dell'anello d'oro; Narciso e Pallante furono arbitri di molte carriere militari e politiche.
Le punizioni
Posto che la "bontà" verso gli schiavi doveva essere considerata un sentimento eccezionale, le pene o punizioni erano molte e all'ordine del giorno, da quella più semplice del trasferimento in una famiglia rustica a quella del lavoro forzato in miniera, alle cave, alla macine, al circo, sino alla crocifissione.
Di regola bastava la fustigazione (sferza, scudiscio e il terribile flagello, frusta a nodi), ma a volte si procedeva alla rasatura della testa, fino alla tortura vera e propria: l'ustione mediante lamine di metallo incandescenti, la frattura violenta degli stinchi, la mutilazione, l'eculeo (strumento in legno che stirava il corpo sino a spezzarne le giunture).
Agli schiavi fuggitivi, calunniatori o ladri si scrivevano in fronte, col marchio infuocato, rispettivamente le lettere FUG (fugitivus), KAL (kalumniator) o FUR (fur=ladro). Tuttavia chi riusciva a sottrarsi alla cattura cessava di essere schiavo, per una consuetudine passata nel diritto.
Per gli schiavi ribelli, terroristi, sediziosi vi era la crocifissione, cioè l'inchiodamento a una trave per una lenta agonia, previa flagellazione. Ma molti di questi schiavi finivano anche in pasto alle belve feroci del circo o bruciati vivi.
Moltissimi schiavi, per punizione, finivano per fare i gladiatori. La gladiatura fu introdotta nel 264 a.C. e ufficializzata nel 105 a.C.: in essa si realizzava il concetto di virile coraggio. Il primo edificio utilizzato appositamente per questi duelli fu del 53 a.C. Il più famoso è il Colosseo, che aveva 45.000 posti a sedere e 5.000 in piedi. I gladiatori venivano reclutati, di solito, tra i prigionieri di guerra, i disertori e gli incendiari, ma anche tra i cittadini liberi condannati a morte. Era comunque facile passare dall'esercito alla gladiatura, ma in questo caso lo si faceva per guadagnare dei soldi.
Contrariamente a quanto si crede, i combattimenti all'ultimo sangue furono molto pochi. Augusto non ne voleva più di due all'anno; Tiberio e Claudio non ne organizzarono neanche uno; Nerone squalificò per 10 anni l'anfiteatro di Pompei. Solo nel IV sec. d.C. i giorni dedicati a queste lotte erano saliti a dieci l'anno.
Le rivolte
La prima significativa rivolta armata di schiavi si ebbe in Sicilia nel 137 a.C. Erano stati importati dalla Siria, dalla Grecia, dalla Cilicia, e mandati a lavorare nei campi e nelle miniere.
I primi a insorgere furono gli schiavi di Damofilo, sotto la guida di Euno, di origine siriaca. S'impadronirono della città di Enna. Contemporaneamente insorsero anche gli schiavi di Agrigento che sotto la guida dello schiavo Cleone andarono a ingrossare le schiere di Euno. In tutto i rivoltosi arrivarono a 200.000.
Elessero re Euno il cui regno rimase in carica dal 137 al 132 a.C., poi distrutto dal console romano Rupilio, con la conquista, dopo lungo assedio, delle città di Tauromenio e di Enna. Euno fu ucciso con torture in carcere. Circa 20.000 schiavi furono giustiziati.
Poterono resistere ben cinque anni perché rispettavano i contadini, infierendo solo contro i latifondisti.
Negli stessi anni un'altra grande rivolta di schiavi fu capeggiata in Asia Minore da Aristonico, nella città di Pergamo. Ai romani occorsero ben tre anni prima di avere la meglio.
Altre insurrezioni, tutte ferocemente represse, si ebbero in Italia, nelle città di Sinuessa e di Minturno (qui furono crocifissi 450 schiavi); in Grecia nelle miniere dell'Attica e della Macedonia e nell'isola di Delo, il più grande emporio di schiavi dell'area mediterranea.
In Sicilia si ebbe una seconda rivolta nel 104 a.C., nei pressi di Eraclea, con la sollevazione di 80 schiavi, che si fortificarono su una montagna, dove vennero raggiunti da altri schiavi, fino a formare un esercito di 20.000 fanti e 2.000 cavalieri. Elessero re lo schiavo Salvio, che prese il nome di Trifone.
A questi schiavi se ne unirono altri 10.000 raccolti da Atenione nella città di Lilibeo. Insieme fortificarono la città di Triocala. Riuscirono a resistere alle legioni dei pretori Lucullo e Servilio, ma non a quelle del console Aquilio che nel 101 ebbe la meglio.
La più grande rivolta di schiavi fu quella di Spartaco.
Gli ultimi movimenti di rilievo dei ceti servili, furono quello detto dei Bagaudi, in Gallia, verso la fine del regno di Gallieno e di Postumo. Agli insorti si unirono i piccoli artigiani di Augustodunum (Autun) e gli schiavi impiegati nelle fabbriche di armi della stessa città.
Poi quello degli Isauri in Asia Minore, e dei Mauri in Africa. Ormai siamo alle soglie di un'epoca in cui la schiavitù antica si dissolve e la rivolta servile diventa una vera rivolta contadina.
Fonte: Homolaicus
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Le cause
Lo schiavo è una cosa, una res vivente, uno "strumento o animale parlante". Lo è dal IV millennio a.C., a partire dalle civiltà egizie e sumera.
In latino schiavo si dice servus, ma gli storici, per distinguere il feudalesimo dallo schiavismo, usano "schiavo" per l'economia schiavile rivolta al mercato, e "servo" per indicare l'economia di sussistenza basata sul servaggio o servitù della gleba. Finito il feudalesimo, la parola "servo" stava ad indicare una qualunque persona libera che prestava un servizio.
Nella civiltà romana la condizione di schiavo rientrava in quella più generale dipendenza che il cittadino romano riservava allo straniero, l'uomo alla donna, il padre al figlio.
Si diventava schiavi sostanzialmente per due motivi:
- sconfitta militare: i prigionieri di guerra, caduti in proprietà dello Stato, venivano venduti al miglior offerente;
- indebitamento: chi non poteva pagare i propri debiti diventava proprietà del creditore, dopo il relativo periodo di prigionia, oppure veniva venduto sui mercati di Trastevere.
Ma lo si poteva diventare anche a seguito di un naufragio o di una pena che comportasse la perdita della libertà personale (p.es. l'assassinio o la renitenza alla leva o l'evasione fiscale), a meno che non si accettasse l'esilio. La gente povera spesso finiva schiava anche per reati minimi, se non poteva pagare una pena pecuniaria.
E non si devono dimenticare le persone rapite dai pirati o dai briganti per essere poi vendute, né i bambini che venivano abbandonati (perché non riconosciuti dal padre) o venduti dalle famiglie povere.
Poteva anche darsi il caso di esiliati politici che emigravano a Roma per porsi in servitù, o quelle tribù nordiche che facevano la stessa cosa, spinte dalla fame o dalla carestia.
Da ultimo non si può non considerare che un commercio estero, internazionale, di schiavi esisteva anche prima che i romani diventassero una grande potenza.
Nessuna filosofia egualitaria dell'antichità riuscì mai a scalfire questa diffusa cultura dello sfruttamento del lavoro altrui.
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Gli schiavi venivano venduti nelle botteghe, sui mercati o nel Foro, sotto la sorveglianza di appositi magistrati, a tutela dei rilevanti profitti statali.
Generalmente stavano su un palco girevole, con al collo un cartello che indicava la nazionalità, le attitudini, le qualità, i difetti. Quelli provenienti d'oltremare erano riconoscibili per un piede tinto di bianco e i soldati vinti per una coroncina in testa. Schiavi scelti e costosi venivano mostrati in sale chiuse a ingresso controllato.
I prezzi variavano a seconda dell'età e delle qualità (intelligenza, cultura, forza fisica ma anche bellezza, buona dentatura, capacità di suonare o cantare, parlare greco) e si aggiravano sui 1.200-2.500 sesterzi (a fine repubblica un sesterzio equivaleva a circa 2 euro).
Anche ai romani di mezzi modesti piaceva avere uno schiavo al proprio servizio, perché non averne neppure uno era indizio di degradante miseria. Molti ricchi romani possedevano da 10.000 a 20.000 schiavi.
I romani più ricchi potevano anche acquistare stare per rivenderli o cederli a grosse imprese in cambio di un affitto. Sotto questo aspetto alcuni arrivarono persino ad allevarli.
Le mansioni
Una volta fatto schiavo, i luoghi prevalenti di destinazione dove esercitare il mestiere erano in aree abbastanza separate: campagna, città, mare (i rematori nelle navi da guerra o di commercio), cave e miniere (soprattutto per l'estrazione dei metalli pregiati).
La schiavitù rurale era quella che comprendeva i braccianti, i contadini, gli allevatori. Questi schiavi godevano di condizioni di vita infime. Il loro lavoro era molto faticoso e poco qualificato. Il trasferimento dalla famiglia urbana a quella rustica veniva considerato come una punizione. A capo degli schiavi di campagna era il fattore, assistito dalla moglie.
In città invece venivano impiegati per attività artigianali: vasai, decoratori, carpentieri, muratori, lavoratori del cuoio, o industriali (fabbricare tessuti). Questi schiavi godevano di condizioni di vita migliori e il loro lavoro era più qualificato. Ma vi erano anche quelli dediti alla costruzione di strade e alle opere pubbliche, o quelli che dovevano far girare in catene la ruota del mulino, che sicuramente svolgevano lavori molto più duri.
Le categorie privilegiate di schiavi erano quelle destinate al servizio domestico (cuochi, camerieri, gli addetti alla toeletta dei padroni, alla cura e all'educazione dei loro figli, alla pulizia della casa e della suppellettile, degli indumenti, gli amanuensi e postini), nonché quelle che aiutavano il padrone nelle attività commerciali (tesoriere, contabile, addetto alla tenuta dei libri), oppure gli schiavi intellettuali, quali pedagoghi, medici e chirurghi, bibliotecari, senza tralasciare gli addetti a scuderie e cavalli.
In genere gli schiavi provenienti dall'oriente ellenistico erano adibiti a funzioni domestiche (anche come maestri dei figli dell'aristocrazia) o artigianali cittadine, perché meno robusti e più acculturati dei loro colleghi italici, germanici, iberici.
I diritti
Lo schiavo, per definizione, non aveva alcun diritto, ma solo responsabilità penali. Non poteva possedere cose personali, cioè se poteva comprare qualcosa non poteva però disporre come fosse di sua proprietà. Se aveva moglie e figli, il suo padrone poteva venderli senza nessun problema.
Lo schiavo restava tale anche se per un evento qualunque cessava di avere un padrone.
Lo schiavo, di regola, non poteva sposarsi (Catone il Vecchio fu l'unico a permettere, tra i suoi servi, rapporti sessuali a pagamento intascandone il prezzo), non poteva essere difeso dalla legge o ascoltato in un tribunale. Tuttavia, nel corso dell'impero i padroni di schiavi tendevano a permettere a quest'ultimi la possibilità di una stabile vita di coppia. E' altresì noto che i padroni avevano maggiori riguardi per gli schiavi nati in casa.
Gli schiavi che ritenevano ingiusto il padrone potevano rifugiarsi in Campidoglio ed esporre le proprie ragioni, ma non si ha notizia di padroni puniti. Gli veniva concesso asilo se si rifugiava presso un tempio, ma al massimo poteva passare di proprietà da un padrone a un altro.
Se un cittadino uccideva uno schiavo altrui, non incorreva a una sanzione penale ma solo amministrativa, cioè pagava una sanzione monetaria corrispondente al valore dello schiavo.
La legge Giulia aveva altresì stabilito che non poteva esservi adulterio o stupro se non tra persone libere. Molti giovani schiavi venivano usati a scopi sessuali.
Però la lex Petronia proibiva al padrone di dare lo schiavo in pasto alle belve senza una sentenza del giudice.
Il diritto romano non riconosceva agli schiavi un culto religioso proprio, ma gli si consentiva di esercitare alcuni riti secondo i costumi originari.
Gli schiavi di città erano sicuramente più liberi di quelli di campagna: potevano frequentare le osterie, i bagni pubblici, il circo...
A volte capitava che per esigenze particolari (guerre, ordine pubblico) si accettassero arruolamenti negli eserciti da parte di schiavi e barbari: in tal caso lo schiavo otteneva subito la libertà e il diritto a sposare le vedove dei caduti di guerra.
Solo dopo Adriano lo schiavo, coi suoi piccoli risparmi, con le mance, ha diritto di farsi un gruzzolo di denaro con cui affrancarsi, ma soltanto nella tarda età imperiale la legge ordinerà ai padroni di concedere l'affrancamento, dopo aver soddisfatto i loro diritti di proprietario.
Gli schiavi, veri e propri "strumenti di produzione", quando la vecchiaia, gli stenti, le malattie li rendevano improduttivi, dato che difficilmente il padrone trovava un compratore, venivano abbandonati a se stessi e lasciati lentamente morire. A meno che non fossero in grado di riscattarsi diventando liberti. Claudio ordinò l'emancipazione degli schiavi malati abbandonati dal padrone.
Evoluzione
Nei primi secoli di vita della città romana gli schiavi erano inseriti nel sistema patriarcale, nel senso che il lavoro nei campi era svolto dallo stesso pater familias, aiutato sia dai figli che dagli schiavi. Gli schiavi erano considerati persone di famiglia, anche se ovviamente senza alcun diritto.
All'inizio del II sec. a.C. raramente le famiglie romane possedevano più di uno schiavo, ma verso la fine dello stesso secolo, soprattutto dopo la fine delle guerre puniche, il numero della popolazione servile era talmente aumentato da alterare i rapporti tra schiavo e padrone.
Il mercato degli schiavi era ormai divenuto una delle attività commerciali più produttive del Mediterraneo (questo perché i ricchi proprietari terrieri avevano continuamente bisogno di una crescente manodopera). Il più grande mercato venne organizzato nell’isola di Delo, dove nei tempi più proficui si potevano vendere, mediamente, 10.000 schiavi al giorno.
L’estendersi dell’economia schiavistica ebbe conseguenze negative per la popolazione italica, non solo perché frenava lo sviluppo tecnologico, ma anche perché tendeva ad aumentare la disoccupazione. Al tempo dell'imperatore Domiziano poteva sembrare più accettabile la posizione di uno schiavo al servizio di un ricco che non quella di un cittadino libero privo di proprietà.
Nel II sec. d.C. famiglie con uno schiavo solo non esistevano più: o non ne compravano affatto perché costava troppo mantenerli, oppure ne possedevano molti di più. Due era il numero minimo, ma la media era di otto.
Il livello di benessere, il prestigio pubblico, l'onorabilità, la quantità e la qualità dei servizi privati, in casa e fuori, erano in proporzione alla quantità e qualità di schiavi posseduti. Il prestigio di un avvocato, p.es., era determinato, presso il suo cliente, dalla scorta di schiavi con cui si presentava in tribunale.
Plinio il Giovane (età di Traiano), che si dichiarava uomo di modesta ricchezza, ne possedeva almeno 500, e di questi volle affrancarne almeno 100 nel suo testamento.
Il massimo dei riscatti consentiti dalla legge Fufia Canina, dell'8 a.C., era di 1/5 del totale degli schiavi posseduti.
Nell'età imperiale Adriano tolse al padrone dello schiavo il diritto di vita e di morte, e Antonino Pio e Costantino considerarono omicidio l'assassinio del servo e punirono chi uccideva un figlio con le stesse pene di chi uccideva il padre.
Con altre disposizioni si permise allo schiavo di mettere da parte, coi suoi risparmi, una somma che gli servisse per qualche spesa voluttuaria o gli permettesse di riscattarsi, quando non era lo stesso padrone, spontaneamente, a liberarlo.
Provenienza geografica
Durante il periodo della conquista romana dei paesi del Mediterraneo (264-31 a.C.) furono condotti schiavi a Roma e in Italia:
- 30.000 abitanti di Taranto nel 209
- un gran numero di Sardi nel 176
- 150.000 abitanti dell'Epiro nel 167
- 50.000 Cartaginesi nel 146
- 50.000 Corinzi nel 146
- intere popolazioni della Spagna tra il 150 e il 100
- 150.000 Cimbri e Teutoni verso il 102-101
- centinaia di migliaia di asiatici dalle guerre di Pompeo nel 66-62: Ponto, Siria, Palestina
- un milione di Galli dalle guerre di Cesare nel 58-50
Durante il periodo della pax romana (31 a.C. - 192 d.C.) - sotto Augusto proseguono le conquiste e affluiscono a Roma sempre nuovi schiavi a basso prezzo,
- Tiberio rinuncia a conquistare la Germania, perché diventa più vantaggioso allevare schiavi,
- Vespasiano e Tito distruggono Gerusalemme nel 70 d.C. e portano a Roma decine di migliaia di schiavi ebrei,
- Traiano occupa la Dacia e l'Armenia: nuovo arrivo di schiavi in massa (circa 50.000). L'ultima grandiosa tratta e vendita all'incanto di schiavi si ebbe appunto con Traiano.
Ma in complesso il numero degli schiavi diminuisce.
Nel periodo della crisi dell'impero (192 - 476 d.C.), con l'anarchia militare e i saccheggi, c'è riduzione di nuove popolazioni in schiavitù, ma nel complesso il numero degli schiavi tende a diminuire, non solo perché ha termine l'espansione dell'impero, ma anche perché si cerca di trasformare la schiavitù in colonato o in servaggio, sulla base di un contratto.
A Roma, su una popolazione che poteva andare da mezzo milione a 1,5 milione di abitanti, gli schiavi erano da 100.000 (II sec. a.C.) a mezzo milione (II sec. d.C.). Quando la capienza di Roma fu massima, circa 400.000 persone libere di nascita vivevano con l'assistenza della pubblica annona e solo 100.000 capifamiglia erano in grado di provvedere alle necessità della famiglia con rendite proprie.
Difficile dire il numero dei liberti, degli stranieri, dei militari, della classe media. Si pensa che nella Roma imperiale almeno l'80% della popolazione provenisse da origine servile più o meno remota.
L'ordine senatoriale comprendeva circa 600 famiglie, mentre quello equestre circa 5.000, quindi in tutto le persone più influenti o più ricche che disponeva del maggior numero di schiavi erano circa 20-25.000. La domus di un consolare romano del tempo di Nerone poteva ospitare anche 400 schiavi. Un imperatore poteva disporre anche di 20.000 schiavi.
Forme di riscatto
L'emancipazione dalla condizione schiavile era solita avvenire in tre forme previste dal diritto civile:
- manumissio per vindictam: davanti a un magistrato, il padrone metteva una mano sulla testa dello schiavo (manumissus), pronunciando una determinata formula giuridica, dopodiché un littore del magistrato toccava lo schiavo su una spalla con una verghetta (vindicta), simbolo di potere, e lo dichiarava libero;
- manumissio censu: il padrone, dopo cinque anni, faceva iscrivere lo schiavo come cittadino romano nelle liste dei cittadini, dietro consenso popolare o per suo diretto intervento, e lo schiavo era automaticamente libero. L'iscrizione veniva fatta dal censor, cioè dal funzionario addetto ai ruoli delle imposte e alla registrazione del censo;
- manumissio testamento: il padrone nel suo testamento dichiarava libero uno o più schiavi; l'esecuzione testamentaria poteva aver luogo anche prima che il padrone morisse e comportava la successiva iscrizione nelle liste del censo.
Col tempo s'imposero forme più semplici: - manumissio inter amicos: il padrone dichiarava in presenza degli amici di voler dare la libertà allo schiavo;
- manumissio per mensam: il padrone invitava lo schiavo a mangiare insieme agli ospiti; con la manumissio per convivii adhibitionem il padrone lo liberava semplicemente considerandolo un proprio commensale;
- manumissio per epistulam: il padrone comunicava per lettera allo schiavo l'intenzione di liberarlo.
La situazione degli schiavi così liberati venne regolata dalla legge Iunia Norbana del 19 a.C., in base alla quale essi potevano disporre di beni propri, anche se non potevano lasciarli in testamento; sicché i loro beni tornavano all'antico padrone. Tale limitazione verrà tolta dall'imperatore Giustiniano.
Dopo la manumissio il padrone (dominus) diventava patronus, cioè protettore del liberto. Il nuovo vincolo comportava l'obbligo reciproco degli alimenti, l'obbligo di prestazioni gratuite di manodopera da parte del liberto e altre cose che in sostanza si presentavano come anticamera dei medievali rapporti di servaggio.
Lo Stato comunque temeva un'eccessiva liberazione di schiavi, perché sapeva bene ch'essi avrebbero ingrossato la massa della plebe, il cui mantenimento gravava sulla pubblica annona. Di qui la limitazione al 5% del totale posseduto, nonché il divieto di liberare schiavi sotto i 18 anni o il divieto di riscattarsi prima dei 30. D'altra parte gli stessi imperatori impedirono più volte, con la cancellazione dei debiti, che masse di debitori cadessero in schiavitù per insolvenza.
I liberti
Uno schiavo affrancato era detto "liberto". E l'età adatta a riscattarsi si aggirava sui 30 anni.
Poteva infatti accadere che quando i cittadini liberi erano impegnati nelle guerre di conquista, gli schiavi dovessero svolgere in patria delle mansioni di una certa responsabilità (gestione di un'azienda, di un'attività economica, di un'abitazione padronale). In tali casi il padrone poteva concedere spontaneamente la condizione di "liberto", oppure lo schiavo poteva riscattarsi pagando un certo prezzo e continuando a lavorare presso il padrone sulla base di un contratto.
D'altra parte i senatori, non potendo fare commerci in senso proprio, avevano necessità di servirsi di liberti, che spesso praticavano l'usura e persino il commercio di schiavi.
Il liberto poteva anche svolgere un'attività economica indipendente, ma il padrone esigeva sempre delle corvées sui suoi terreni o nella sua abitazione, oppure pretendeva dei doni in occasione di festività.
Generalmente i liberti continuavano ad abitare presso la casa padronale.
I liberti venivano ammessi alla distribuzione gratuita di frumento, alimenti vari, denaro.
I liberti non avevano gli stessi diritti dei cittadini liberi (p.es. erano esclusi dai diritti politici), ma avevano il diritto di cittadinanza. Tuttavia i suoi discendenti, alla terza generazione, diventavano cittadini romani con la pienezza di tutti i diritti.
Qui si può ricordare che i cittadini romani non solo potevano esercitare i diritti politici, ma potevano essere condannati a morte solo da un’assemblea cittadina e non da un qualunque magistrato, come accadeva a chi non era romano. Inoltre non potevano essere sottoposti a tortura fisica e fustigazione. I funzionari e gli amministratori imperiali dovevano essere romani: per gli appartenenti alle classi più elevate dei territori conquistati, la cittadinanza era la sola via per far parte dei gruppi dirigenti.
Gli stessi imperatori, diffidando delle classi al potere, già corruttrici della repubblica, diedero loro incarichi di fiducia (spesso connessi al fisco). Il che poteva aiutare gli imperatori a dimostrare il carattere democratico delle istituzioni. L'ufficio politico dell'imperatore Claudio era composto esclusivamente di schiavi di fiducia, che, dopo la sua morte, furono sostituiti da liberti, molti dei quali si erano arricchiti notevolmente sin dal tempo delle guerre civili sillane.
Quando, nel 40 d.C., l’imperatore Claudio propose di dare ad alcuni galli la possibilità di diventare magistrati e senatori, vi fu in Senato chi sostenne che Roma non aveva bisogno degli stranieri per ricoprire posti di governo. Tuttavia, la tesi che prevalse, riportata da Tacito, fu la seguente: "A qualche altra causa si deve la rovina degli spartani e degli ateniesi, nonostante il loro valore bellico, se non alla loro ostinazione a tenere in disparte gli stranieri?. Al contrario, Romolo, che fondò il nostro impero, fu abbastanza saggio da saper trattare nello stesso giorno gli stessi popoli da nemici e da cittadini. Degli stranieri hanno regnato su di noi, i figli di liberti possono diventare magistrati, e questa non è una novità, come si ha il torto di credere: l’antica Roma ne ha dato molti esempi".
Augusto arrivò ad autorizzare i matrimoni tra liberi e liberti. Tiberio diede la cittadinanza ai liberti pompieri antincendio a condizione che si arruolassero nell'esercito. Claudio la concesse ai liberti che coi loro risparmi avessero armato le navi commerciali. Nerone a quelli che avessero impiegato capitali nell'edilizia e Traiano a quelli che avessero aperto dei forni.
Si conoscono rinomati liberti: Antonia Filematio, al servizio degli Antoni nel 13 a.C., capace di fare affari in Egitto; G. Cecilio Isidoro che nell'8 a.C. possedeva enormi latifondi e 4116 schiavi; Roscio, commediante, che ricevette da Silla l'alta onorificenza dell'anello d'oro; Narciso e Pallante furono arbitri di molte carriere militari e politiche.
Le punizioni
Posto che la "bontà" verso gli schiavi doveva essere considerata un sentimento eccezionale, le pene o punizioni erano molte e all'ordine del giorno, da quella più semplice del trasferimento in una famiglia rustica a quella del lavoro forzato in miniera, alle cave, alla macine, al circo, sino alla crocifissione.
Di regola bastava la fustigazione (sferza, scudiscio e il terribile flagello, frusta a nodi), ma a volte si procedeva alla rasatura della testa, fino alla tortura vera e propria: l'ustione mediante lamine di metallo incandescenti, la frattura violenta degli stinchi, la mutilazione, l'eculeo (strumento in legno che stirava il corpo sino a spezzarne le giunture).
Agli schiavi fuggitivi, calunniatori o ladri si scrivevano in fronte, col marchio infuocato, rispettivamente le lettere FUG (fugitivus), KAL (kalumniator) o FUR (fur=ladro). Tuttavia chi riusciva a sottrarsi alla cattura cessava di essere schiavo, per una consuetudine passata nel diritto.
Per gli schiavi ribelli, terroristi, sediziosi vi era la crocifissione, cioè l'inchiodamento a una trave per una lenta agonia, previa flagellazione. Ma molti di questi schiavi finivano anche in pasto alle belve feroci del circo o bruciati vivi.
Moltissimi schiavi, per punizione, finivano per fare i gladiatori. La gladiatura fu introdotta nel 264 a.C. e ufficializzata nel 105 a.C.: in essa si realizzava il concetto di virile coraggio. Il primo edificio utilizzato appositamente per questi duelli fu del 53 a.C. Il più famoso è il Colosseo, che aveva 45.000 posti a sedere e 5.000 in piedi. I gladiatori venivano reclutati, di solito, tra i prigionieri di guerra, i disertori e gli incendiari, ma anche tra i cittadini liberi condannati a morte. Era comunque facile passare dall'esercito alla gladiatura, ma in questo caso lo si faceva per guadagnare dei soldi.
Contrariamente a quanto si crede, i combattimenti all'ultimo sangue furono molto pochi. Augusto non ne voleva più di due all'anno; Tiberio e Claudio non ne organizzarono neanche uno; Nerone squalificò per 10 anni l'anfiteatro di Pompei. Solo nel IV sec. d.C. i giorni dedicati a queste lotte erano saliti a dieci l'anno.
Le rivolte
La prima significativa rivolta armata di schiavi si ebbe in Sicilia nel 137 a.C. Erano stati importati dalla Siria, dalla Grecia, dalla Cilicia, e mandati a lavorare nei campi e nelle miniere.
I primi a insorgere furono gli schiavi di Damofilo, sotto la guida di Euno, di origine siriaca. S'impadronirono della città di Enna. Contemporaneamente insorsero anche gli schiavi di Agrigento che sotto la guida dello schiavo Cleone andarono a ingrossare le schiere di Euno. In tutto i rivoltosi arrivarono a 200.000.
Elessero re Euno il cui regno rimase in carica dal 137 al 132 a.C., poi distrutto dal console romano Rupilio, con la conquista, dopo lungo assedio, delle città di Tauromenio e di Enna. Euno fu ucciso con torture in carcere. Circa 20.000 schiavi furono giustiziati.
Poterono resistere ben cinque anni perché rispettavano i contadini, infierendo solo contro i latifondisti.
Negli stessi anni un'altra grande rivolta di schiavi fu capeggiata in Asia Minore da Aristonico, nella città di Pergamo. Ai romani occorsero ben tre anni prima di avere la meglio.
Altre insurrezioni, tutte ferocemente represse, si ebbero in Italia, nelle città di Sinuessa e di Minturno (qui furono crocifissi 450 schiavi); in Grecia nelle miniere dell'Attica e della Macedonia e nell'isola di Delo, il più grande emporio di schiavi dell'area mediterranea.
In Sicilia si ebbe una seconda rivolta nel 104 a.C., nei pressi di Eraclea, con la sollevazione di 80 schiavi, che si fortificarono su una montagna, dove vennero raggiunti da altri schiavi, fino a formare un esercito di 20.000 fanti e 2.000 cavalieri. Elessero re lo schiavo Salvio, che prese il nome di Trifone.
A questi schiavi se ne unirono altri 10.000 raccolti da Atenione nella città di Lilibeo. Insieme fortificarono la città di Triocala. Riuscirono a resistere alle legioni dei pretori Lucullo e Servilio, ma non a quelle del console Aquilio che nel 101 ebbe la meglio.
La più grande rivolta di schiavi fu quella di Spartaco.
Gli ultimi movimenti di rilievo dei ceti servili, furono quello detto dei Bagaudi, in Gallia, verso la fine del regno di Gallieno e di Postumo. Agli insorti si unirono i piccoli artigiani di Augustodunum (Autun) e gli schiavi impiegati nelle fabbriche di armi della stessa città.
Poi quello degli Isauri in Asia Minore, e dei Mauri in Africa. Ormai siamo alle soglie di un'epoca in cui la schiavitù antica si dissolve e la rivolta servile diventa una vera rivolta contadina.
Fonte: Homolaicus
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Re: Spartacus
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Re: Spartacus
LA VILLA ROMANA
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La villa in età romana era essenzialmente una casa di campagna. Sviluppatasi in Italia in particolare a partire dall'età tardo-repubblicana, sorgeva come residenza padronale al centro di un complesso di edifici e di terreni destinati alla produzione agricola oppure come luogo per il riposo (otium) dalle attività e dagli affari (negotium) praticati in città.
Secondo Plinio il Vecchio e Vitruvio vi erano due tipi di villa: la villa urbana, che era una residenza di campagna che poteva essere facilmente raggiunta da Roma (o da un'altra città) per una notte o due, e la villa rustica, la residenza con funzioni di fattoria occupata in modo permanente dai servi o da schiavi che ci lavoravano per i padroni.
La villa rustica in età romana
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Schema di villa rustica
La villa rustica in origine era sostanzialmente il nucleo di un'azienda agraria a conduzione familiare, dove veniva prodotto ciò che era necessario al sostentamento. Col passare degli anni e l'accrescersi della potenza di Roma, che a ogni conquista trasferiva in Italia centinaia di migliaia di schiavi da sfruttare nei più svariati lavori, le ville rustiche si fecero sempre più grandi e sontuose (200-250 ettari sembra comunque la misura media) e la produzione agricola diventò un'attività il cui scopo non era più semplicemente quello di sfamare il padrone, ma anche e soprattutto di vendere i prodotti in eccesso anche su mercati lontani.
In particolare, la villa come azienda agricola fu una forma presente soprattutto in Italia centrale, dalla Campania all'Etruria (celebre la Villa Settefinestre ad Ansedonia) ed è stata considerata da alcuni studiosi come la forma produttiva più originale, efficiente e razionale che l'economia romana abbia prodotto, la più vicina a sfiorare un modo di produzione propriamente capitalistico. Le produzioni erano differenziate: piantagioni (soprattutto ulivi e vite), altre coltivazioni intensive, orti, pascoli, impianti di trasformazione, depositi, mezzi di trasporto. Si trattava, insomma, di una vera fabbrica rurale organizzata.
Il lavoro era affidato a una massa di schiavi organizzati con disciplina militare, inquadrati da sorveglianti, schiavi anch'essi, sotto la direzione di un vicario del padrone, il villicus.
Una organizzazione così complessa necessitava di solide competenze, che i romani non esitarono a tradurre in famosi testi di agronomia, come: il De agri cultura di Marco Porcio Catone, il De re rustica di Marco Terenzio Varrone e i libri di Columella.
La villa era divisa in diversi settori:
La progressiva riduzione degli schiavi, dovuta al concludersi della fase espansionistica dell'Impero romano (II secolo d.C.), costrinse l'aristocrazia fondiaria a cedere una parte sempre più vasta della terra a coloni. Questi ultimi, a differenza degli schiavi, erano liberi, ma legati al latifondista secondo la forma della commendatio, ovvero in cambio della protezione garantita dal padrone avevano l'obbligo di prestare servizi (corvée) e pagare canoni. Nelle ville vigeva la responsabilità collettiva del pagamento delle tasse.
La villa urbana in età romana
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Schema di villa urbana
La villa urbana può essere considerata come la sede del prestigio e del benessere dei Romani più ricchi, il luogo delle relazioni sociali. Col tempo le ville urbane andarono ampliandosi, diventando pian piano simili alle residenze cittadine. Dotate di ogni comodità, spesso erano più grandi delle domus di città ed erano autosussistenti. Potevano avere biblioteche, sale di lettura, stanze per il bagno caldo, freddo e tiepido, una piscina scoperta ed una palestra. Ampi porticati permettevano passeggiate all'aperto. Erano circondate da parchi e giardini molto curati.
Una delle ville romane più maestose che si possono tuttora visitare è Villa Adriana, a Tivoli. Ma si possono ricordare anche le ville di Baia e Posillipo, la Villa dei Misteri a Pompei, la Domus Aurea di Nerone a Roma, la villa del Casale di Piazza Armerina.
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Schema di villa porticata
La villa in epoca medioevale
Dopo le invasioni barbariche, i latifondisti usavano i barbari come milizia per tenere soggiogati i coloni affinché non si ribellassero.
Dopo l'invasione longobarda le ville rimasero in mano ai latifondisti latini, ma erano particolarmente spremute fiscalmente. Da questo periodo presero a chiamarsi curtes. Ogni villa o curtis poteva avere un'estensione tra i 100 ed i 10.000 ettari (in quest'ultimo caso se include area boschiva), anche suddivisi in più appezzamenti sparsi (anche fino a 40). Poteva essere laica oppure ecclesiastica.
La Pars rustica era divisa in appezzamenti chiamati manso affidati al singolo colono. I mansi potevano avere estensione tra 5 e 30 ettari. Esistevano anche mansi liberi da sudditanza, ed erano chiamati mansi allodiali, che potevano anche essere uniti in villaggi. A partire dall'anno mille la Pars Dominica cominciò ad essere venduta a borghesi imprenditori, con redditi ottenuti dai diritti bannali.
Fonte: WIKIPEDIA
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La villa in età romana era essenzialmente una casa di campagna. Sviluppatasi in Italia in particolare a partire dall'età tardo-repubblicana, sorgeva come residenza padronale al centro di un complesso di edifici e di terreni destinati alla produzione agricola oppure come luogo per il riposo (otium) dalle attività e dagli affari (negotium) praticati in città.
Secondo Plinio il Vecchio e Vitruvio vi erano due tipi di villa: la villa urbana, che era una residenza di campagna che poteva essere facilmente raggiunta da Roma (o da un'altra città) per una notte o due, e la villa rustica, la residenza con funzioni di fattoria occupata in modo permanente dai servi o da schiavi che ci lavoravano per i padroni.
La villa rustica in età romana
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Schema di villa rustica
La villa rustica in origine era sostanzialmente il nucleo di un'azienda agraria a conduzione familiare, dove veniva prodotto ciò che era necessario al sostentamento. Col passare degli anni e l'accrescersi della potenza di Roma, che a ogni conquista trasferiva in Italia centinaia di migliaia di schiavi da sfruttare nei più svariati lavori, le ville rustiche si fecero sempre più grandi e sontuose (200-250 ettari sembra comunque la misura media) e la produzione agricola diventò un'attività il cui scopo non era più semplicemente quello di sfamare il padrone, ma anche e soprattutto di vendere i prodotti in eccesso anche su mercati lontani.
In particolare, la villa come azienda agricola fu una forma presente soprattutto in Italia centrale, dalla Campania all'Etruria (celebre la Villa Settefinestre ad Ansedonia) ed è stata considerata da alcuni studiosi come la forma produttiva più originale, efficiente e razionale che l'economia romana abbia prodotto, la più vicina a sfiorare un modo di produzione propriamente capitalistico. Le produzioni erano differenziate: piantagioni (soprattutto ulivi e vite), altre coltivazioni intensive, orti, pascoli, impianti di trasformazione, depositi, mezzi di trasporto. Si trattava, insomma, di una vera fabbrica rurale organizzata.
Il lavoro era affidato a una massa di schiavi organizzati con disciplina militare, inquadrati da sorveglianti, schiavi anch'essi, sotto la direzione di un vicario del padrone, il villicus.
Una organizzazione così complessa necessitava di solide competenze, che i romani non esitarono a tradurre in famosi testi di agronomia, come: il De agri cultura di Marco Porcio Catone, il De re rustica di Marco Terenzio Varrone e i libri di Columella.
La villa era divisa in diversi settori:
- La Pars Dominica era la zona residenziale, destinata al dominus e alla sua famiglia;
- La Pars Rustica era la zona destinata alla servitù, ai lavoratori dell'azienda;
- La Pars Fructuaria era destinata alla lavorazione dei prodotti.
Le Pars Rustica e Fructuaria assieme formavano la Pars Massaricia.
La progressiva riduzione degli schiavi, dovuta al concludersi della fase espansionistica dell'Impero romano (II secolo d.C.), costrinse l'aristocrazia fondiaria a cedere una parte sempre più vasta della terra a coloni. Questi ultimi, a differenza degli schiavi, erano liberi, ma legati al latifondista secondo la forma della commendatio, ovvero in cambio della protezione garantita dal padrone avevano l'obbligo di prestare servizi (corvée) e pagare canoni. Nelle ville vigeva la responsabilità collettiva del pagamento delle tasse.
La villa urbana in età romana
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Schema di villa urbana
La villa urbana può essere considerata come la sede del prestigio e del benessere dei Romani più ricchi, il luogo delle relazioni sociali. Col tempo le ville urbane andarono ampliandosi, diventando pian piano simili alle residenze cittadine. Dotate di ogni comodità, spesso erano più grandi delle domus di città ed erano autosussistenti. Potevano avere biblioteche, sale di lettura, stanze per il bagno caldo, freddo e tiepido, una piscina scoperta ed una palestra. Ampi porticati permettevano passeggiate all'aperto. Erano circondate da parchi e giardini molto curati.
Una delle ville romane più maestose che si possono tuttora visitare è Villa Adriana, a Tivoli. Ma si possono ricordare anche le ville di Baia e Posillipo, la Villa dei Misteri a Pompei, la Domus Aurea di Nerone a Roma, la villa del Casale di Piazza Armerina.
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Schema di villa porticata
La villa in epoca medioevale
Dopo le invasioni barbariche, i latifondisti usavano i barbari come milizia per tenere soggiogati i coloni affinché non si ribellassero.
Dopo l'invasione longobarda le ville rimasero in mano ai latifondisti latini, ma erano particolarmente spremute fiscalmente. Da questo periodo presero a chiamarsi curtes. Ogni villa o curtis poteva avere un'estensione tra i 100 ed i 10.000 ettari (in quest'ultimo caso se include area boschiva), anche suddivisi in più appezzamenti sparsi (anche fino a 40). Poteva essere laica oppure ecclesiastica.
La Pars rustica era divisa in appezzamenti chiamati manso affidati al singolo colono. I mansi potevano avere estensione tra 5 e 30 ettari. Esistevano anche mansi liberi da sudditanza, ed erano chiamati mansi allodiali, che potevano anche essere uniti in villaggi. A partire dall'anno mille la Pars Dominica cominciò ad essere venduta a borghesi imprenditori, con redditi ottenuti dai diritti bannali.
Fonte: WIKIPEDIA
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Re: Spartacus
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Re: Spartacus
LA CASA ROMANA
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« Vista l'importanza della città e l'estrema densità della popolazione, è necessario che si moltiplichino in numero incalcolabile gli alloggi. Poiché gli alloggi al solo piano terra non possono accogliere tale massa di popolazione nella città, siamo stati costretti, considerando questa situazione, a ricorrere a costruzioni in altezza. »
(Vitruvio, De architectura, II, 8, 17)
La casa romana, dovendo tener conto nella sua struttura architettonica del poco spazio a disposizione per la sua edificazione, contrariamente a quello che si pensa, era molto simile a quella dei nostri giorni.
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Ricostruzione ipotetica dell'interno di una domus romana.
L'aumento della popolazione e lo spazio edificabile
Nell'ipotesi che la Roma imperiale si estendesse per una superficie di circa 2.000 ettari, questa era largamente insufficiente per le abitazioni di una popolazione calcolata di quasi 1.200.000 abitanti. Esistevano una serie di edifici pubblici, santuari, basiliche, magazzini il cui uso abitativo era riservato a un esiguo numero di persone: custodi, magazzinieri, scribi ecc. Bisogna tener conto poi, nel restringimento dello spazio da utilizzare per le abitazioni, di quello occupato dal corso del Tevere, dai parchi e giardini che situati sulle pendici dell'Esquilino e del Pincio, dal quartiere Palatino, riservato esclusivamente all'imperatore e infine dal largo terreno del campo di Marte i cui templi, palestre, tombe, portici occupavano 200 ettari dai quali però le abitazioni erano escluse per il rispetto dovuto agli dei.
Se si tiene conto dello insufficiente sviluppo tecnico dei trasporti si può sostenere che i Romani fossero condannati ad abitare in limiti territoriali angusti, quali erano quelli fissati da Augusto e dai suoi successori. I Romani incapaci di adeguare il territorio abitativo all'aumento della popolazione, a meno di non frantumare l'unità della vita dell'Urbe, dovettero cercare come rimedio all'esiguità del territorio e alla strettezza delle strade cittadine lo sviluppo in altezza delle loro case.
Solo dopo gli studi pubblicati ai primi del Novecento sugli scavi archeologici di Ostia e sui resti trovati sotto la scala dell'Ara Coeli, su quelli vicini al Palatino in via dei Cerchi, hanno consentito di avere la reale concezione della struttura della casa romana fino ad allora confusa con le case trovate negli scavi di Pompei ed Ercolano dove prevaleva la classica domus dei ricchi che era molto diversa dalle insulae che costituivano la maggioranza in Roma: tra queste ultime e le domus c'è la stessa differenza che oggi potremmo vedere tra un palazzo e un villino in una località di villeggiatura.
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Pianta e assonometria di una tipica domus romana.
1. fauces (ingresso)
2. tabernae (botteghe artigiane)
3. atrium (atrio)
4. impluvium (cisterna per l'acqua)
5. tablinum (studio)
6. hortus (orto/giardino)
7. oecus tricliniare (sala da pranzo)
8. alae (ambienti laterali)
9. cubiculum (camera)
La domus e l'insula
La casa romana poteva essere di due tipi: la domus e l'insula. La struttura architettonica della domus, un'abitazione signorile privata urbana che si distingueva dalla villa suburbana, che invece era un'abitazione privata situata al di fuori delle mura della città, e dalla villa rustica, situata in campagna e dotata di ambienti appositi per i lavori agricoli, prevede che sia costituita da mura senza alcuna finestra verso l'esterno e totalmente aperta invece verso l'interno; al contrario le case popolari hanno aperture verso l'esterno e quando l'insula è costituita da una serie di edifici disposti a quadrilatero, si rivolge verso un cortile centrale: inoltre ha porte, finestre e scale sia verso l'esterno sia verso l'interno.
La domus si compone di ambienti standard, prestabiliti con stanze che si susseguono in un ordine fisso: fauces, atrium, alae, triclinium, tablinum, peristilio.
L'insula è costituita invece dai cenacula, quelli che oggi chiameremo appartamenti, composti da ambienti che non hanno una funzione d'uso prestabilita e che sono posti sullo stesso piano lungo una verticale secondo una sovrapposizione rigorosa.
La domus che riprende i canoni della architettura ellenistica si dispone in senso orizzontale mentre l'insula, apparsa verso il IV secolo a.C. si sviluppa in verticale per rispondere alle esigenze di una popolazione sempre più numerosa raggiungendo un'altezza che meravigliò gli antichi e noi moderni soprattutto per la sua somiglianza con le nostre abitazioni urbane.
Ma già dal III secolo a.C. ci si era abituati a vedere insulae di tre piani (tabulata, contabulationes, contignationes) tanto che Tito Livio, narrando dei prodigi che nell'inverno del 218-17 a.C. avevano preceduto l'offensiva di Annibale, racconta di un toro sfuggito al suo padrone nel Forum Boarium che, infilando un portone, era salito sino al terzo piano e si era lanciato nel vuoto terrorizzando i passanti.
L'altezza di queste insulae era già superata in età repubblicana e Cicerone scrive che Roma con le sue case appare come sospesa nell'aria («Romam cenaculis sublatam atque suspensam»).
L'insula nell'età dell'Impero
Come scrive Vitruvio «la maestà dell'Urbe, l'accrescimento considerevole della sua popolazione portarono di necessità un'estensione straordinaria delle sue abitazioni, e la situazione stessa spinse a cercare un rimedio nell'altezza degli edifici». Lo stesso Augusto spaventato per l'incolumità dei cittadini e dai crolli ripetuti di tali case emanò un regolamento che vietava ai privati di innalzare costruzioni che superassero i 70 piedi (poco più di 20 metri). L'avidità dei costruttori approfittò dei limiti imposti dalla regolamentazione augustea per sfruttare al massimo lo spazio costruendo in altezza anche là dove non era necessario come osservava meravigliato Strabone che al grande porto di Tiro nel Libano le case erano quasi più alte di quelle dell'Urbe. Così Giovenale irride a questa smania di altezza di case che si reggono su pali sottili e lunghi come flauti e il retore del II secolo, Publio Elio Aristide osserva che se si disponessero in orizzontale le case romane si arriverebbe sino alle rive del Mare Adriatico.
L'insula Felicles
Inutilmente Traiano aveva reso più restrittivo il regolamento di Augusto abbassando il limite dell'altezza delle insulae a 60 piedi (circa 18 metri e mezzo) poiché le necessità abitative costringevano a superare questi limiti. Ma anche la speculazione edilizia aveva la sua parte se nel IV secolo, tra il Pantheon e la Colonna Aurelia era stato innalzato un mostruoso edificio, meta di stupiti visitatori per ammirarne l'altezza raggiunta: si trattava dell'edificio di Felicula, l'insula Felicles costruita duecento anni prima sotto Settimio Severo (193-211). La fama di questo straordinario edificio era giunta sino in Africa dove Tertulliano, predicando contro gli eretici valentiniani diceva che questi nel tentativo di avvicinare la creazione sino a Dio creatore avevano trasformato «l'universo in una specie di grande palazzo mobiliato» con Dio sotto i tetti (ad summas tegulas) con tanti piani quanti ne aveva a Roma l'insula Felicles.
Certo l'esempio di questo grattacielo rimane unico nella Roma imperiale ma era molto frequente che venissero costruiti edifici di cinque, sei piani. Giovenale ci racconta di considerarsi fortunato perché per tornare nel proprio alloggio a Via del Pero sul Quirinale, si doveva arrampicare sino al terzo piano ma per altri non era così. Il poeta satirico in occasione di uno dei frequenti incendi che colpivano le zone popolari della città immagina di rivolgersi a un abitante di un'insula che sta andando a fuoco e che abita molto più in alto del terzo piano: «Già il terzo piano brucia e tu non sai nulla. Dal pianterreno in su c'è lo scompiglio, ma chi arrostirà per ultimo è quel miserabile che è protetto dalla pioggia solo dalle tegole, dove le colombe in amore vengono a deporre le loro uova».
Le insulae di lusso
D'altra parte le insulae non erano tutte destinate ai ceti meno facoltosi. Vi erano infatti le insulae che al piano terra aveva un solo appartamento dalle caratteristiche molto simili a una casa signorile, domus infatti veniva chiamato, mentre ai piani superiori erano i cenacula destinate a inquilini più poveri; molto più diffuse erano poi le insulae che al pianterreno avevano una serie di botteghe o magazzini, le tabernae di cui sono rimaste le ossature a Ostia. Pochi erano quelli che potevano permettersi una domus al pianterreno: al tempo di Cesare, Celio pagava un affitto annuo di 30000 sesterzi. Ci si può fare un'idea dell'esosità degli affitti del tempo se si pensa che un moggio di grano costava tra i 3 e i 4 sesterzi e che le largitiones prevedevano in 5 moggi la quantità necessaria a una famiglia media per sostenersi per un mese e che il salario di un manovale era, ai tempi di Cicerone, di 5 sesterzi al giorno mentre quello di un professore di retorica di una scuola pubblica, ai tempi di Antonino Pio, ad Atene oscillava dai 24.000 ai 60.000 sesterzi all'anno che era la stessa cifra iniziale, che poteva però arrivare sino a 200000 sesterzi annui, di un membro del consilium d'Augusto.
Le tabernae
Le tabernae si aprivano lungo la strada occupandone quasi tutta la lunghezza e avevano una porta centinata i cui battenti venivano abbassati e chiusi accuratamente con chiavistelli ogni sera. A chi le osservava dall'esterno apparivano come dei comuni magazzini o come la bottega di un artigiano o di un mercante, ma entrando si poteva notare in fondo una scala in muratura di tre, quattro gradini che si univa a una scala di legno che portava a un soppalco che prendeva luce da una finestra oblunga collocata sopra l'ingresso della taberna: questa era la casa del bottegaio le cui condizioni economiche spesso erano inferiori a quelle degli stessi inquilini delle cenacula degli ultimi piani, dovendo adattarsi a vivere in un unico ambiente dove si cucinava, si dormiva, si lavorava. L'espressione latina giuridica percludere inquilinum, bloccare un locatario, sembra derivasse dal modo con cui il proprietario costringesse gli abitanti delle tabernae, debitori dell'affitto, a pagarlo, togliendo la scala di legno che portava alla loro stanzuccia.
I crolli e gli incendi
Se le insulae per molti aspetti erano simili ai nostri palazzoni moderni in effetti erano però esteticamente più apprezzabili: le pareti erano ornati con combinazioni di legno e stucco, gli ambienti avevano grandi finestre e porte, le file delle tabernae erano coperte da un portico, e là dove la larghezza della strada lo permetteva, vi erano anche delle logge (pergulae) poggianti su i portici o balconi (maeniana) in legno o in mattoni. Spesso piante rampicanti avvolgevano le balaustre dei balconi su cui si potevano vedere anche vasi di fiori, quasi dei piccoli giardini come racconta Plinio il Vecchio. A questo gradevole aspetto esteriore, non corrispondeva un'altrettanta solidità delle insulae che non avevano una base proporzionale alla loro altezza e che inoltre venivano edificate da costruttori disonesti che economizzavano sullo spessore dei muri e dei pavimenti e sulla qualità dei materiali. Ci racconta Giovenale:
«Chi teme o mai temé che gli crollasse
la casa nella gelida Preneste
o tra i selvosi gioghi di Bolsena [...]?
Ma noi in un'urbe viviam che quasi tutta
si sostiene su esili puntelli;
questo rimedio gli amministratori
alle mura cadenti oppongono solo,
e poi, quando tappato hanno alle vecchie
crepe gli squarci, voglian che si dorma
placidi sotto gli imminenti crolli.»
(GIOVENALE, III, 190 sgg.)
Ai frequenti crolli si univano gli incendi che si propagavano celermente sia per la quantità di legno che veniva usata per alleggerire le strutture e di travi per sostenere i pavimenti sia per l'angustia dei vicoli.
Il plutocrate Crasso di questi eventi ne aveva fatto oggetto di speculazione edilizia: avuta notizia di questi disastri si presentava sui luoghi e, dopo aver consolato l'afflitto proprietario dell'edificio crollato o andato in fumo, gli offriva di acquistare il suolo su cui sorgeva naturalmente a un prezzo molto più basso del valore reale; con una sua squadra di muratori appositamente addestrati ricostruiva in tempi brevi un'altra insula da cui ricavare enormi profitti.
Sebbene fin dai tempi di Augusto, Roma disponesse di un corpo di pompieri e di vigili, così frequenti erano gli incendi che, come dice Ulpiano, nella Roma imperiale non passasse giorno senza parecchi incendi (plurimis uno die incendiis exortis).
Quando si verificavano questi sciagurati eventi, i poveri erano in un certo senso favoriti rispetto ai ricchi delle domus: quelli infatti si mettevano più rapidamente in salvo non avendo oggetti preziosi o mobili, quasi assenti nei loro alloggi, da mettere in salvo. Non che i ricchi avessero una gran quantità di mobilia da preservare dal fuoco, ma piuttosto oggetti d'arte preziosi per la loro manifattura, quelli che noi chiameremo soprammobili.
Il mobilio della casa
Per i Romani la maggior parte del mobilio consisteva nei letti. Mentre il povero aveva per letto un giaciglio di mattoni accostato al muro, il ricco disponeva di una serie di letti su i quali non solo si dormiva, ma si mangiava, si scriveva, si riceveva.
I più diffusi erano dei lettini a una piazza (lectuli); vi erano poi quelli a due piazze per gli sposi (lectus genialis), a tre piazze per la sala da pranzo (triclivia) arrivando sino a sei piazze per i ricconi che volevano stupire i loro ospiti. I letti potevano essere in bronzo, più spesso in legno lavorato o in legni pregiati esotici che lucidati emanavano tanti colori come le piume di un pavone (lecti pavonini).
Molto diversi dai nostri tavoli a quattro gambe erano quelli romani (mensae) spesso costituiti da ripiani di marmo poggianti su un piede su i quali venivano esposti per essere ammirati gli oggetti più preziosi (cartibula), o da tavolini tondi in legno o bronzo con tre o quattro gambe mobili.
Molto più rare erano le sedie di cui i romani non sentivano la necessità poiché usavano prevalentemente i letti. Vi era una particolare sedia, una specie di seggiolone (thronus) ma era destinato agli dei. La sedia con la spalliera più o meno inclinata (cathedra) era usata dalle grandi dame romane che Giovenale accusa di mollezza. I resti di questa particolare sedia sono stati ritrovati nella sala di ricevimento del palazzo di Augusto e nello studio di Plinio il Giovane dove egli riceveva i suoi amici. Successivamente divenne la sedia del maestro nella schola e del prete cristiano.
I romani sedevano di solito su dei banchi (scamna) o preferivano usare degli sgabelli senza spalliera e braccioli (subsellia) che portavano con sé.
Tappeti, coperte, trapunte completavano l'arredamento della casa romana stesi sul letto o sulle sellae dove brillava il vasellame in argento dei ricchi, spesso istoriato d'oro dai maestri cesellatori e incastonato di pietri preziose. Ben diverso quello dei poveri in semplice argilla.
Illuminazione e riscaldamento
L'illuminazione della casa romana lasciava molto a desiderare non perché non vi fossero finestre per illuminare e ventilare gli ambienti ma perché spesso le finestre delle case romane erano sprovvisti di quel lapis specularis, sottile lastra di vetro o di mica, di cui non sono stati ritrovati frammenti neppure nelle domus signorili di Ostia. Il lapis specularis veniva usato per chiudere una serra, o una sala da bagno o una portantina ma per le finestre delle case signorili si utilizzavano tele o pelli che lasciavano passare il vento e la pioggia oppure battenti in legno che riparavano meglio dal freddo o dal calore ma che non lasciavano passare la luce. Plinio il Giovane racconta come per ripararsi dal freddo era costretto a vivere allo scuro tanto che neppure si vedeva il bagliore dei lampi.
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Scavi delle terme di Juliomagus con le vestigia dell'Ipocaustum (riscaldamento da pavimento)
Molto precaria era la condizione delle insulae per quanto riguarda il riscaldamento essendo impossibile accendere un fuoco come facevano i contadini nelle loro capanne con un'apertura in alto per far uscire il fumo e le scintille, né esisteva come si è per molto tempo creduto che l'insula avesse un riscaldamento centralizzato.
Gli impianti di riscaldamento romani erano costituiti dall’ipocausi, uno o due fornelli alimentati secondo l'intensità o la durata della fiamma da legna, carbone vegetale o fascine e da un canale attraverso il quale passava il calore assieme alla fuliggine e al fumo che arrivavano nell'ipocausto adiacente, formato da piccole pile di mattoni (suspensurae) attraverso il quale circolava il calore che scaldava il pavimento delle stanze sospese sopra lo stesso ipocausto.
Le suspensurae non ricoprivano mai l'intera superficie degli ipocausti per cui per scaldare il pavimento di una stanza occorrevano più ipocausi. Era quindi impossibile che questo sistema di riscaldamento potesse essere applicato in modo centralizzato a edifici a diversi piani mentre poteva essere utilizzato per riscaldare un vano unico e isolato come si vede nelle stanza da bagno delle ville pompeiane o nel calidarium delle terme.
Né esistevano camini nell'insula. A Pompei solo in due casi in negozi di fornai sono state trovate qualcosa di simile alle nostre canne fumarie: una però era troncata e un'altra arrivava non al tetto ma a una stufa di un vano superiore.
La mancanza di un sistema efficace di riscaldamento costringeva per riscaldarsi a usare bracieri portatili o montati su ruote con il pericolo costante di asfissia per i gas di monossido di carbonio.
Gli impianti idraulici
Come è sbagliato pensare che l'insula godesse di un impianto di riscaldamento centrale così è falso credere che nelle case dei romani vi fosse la comodità di avere a propria disposizione l'acqua corrente.
Non bisogna dimenticare infatti che la fornitura dell'acqua a spese dello stato era stata concepita fin dall'inizio come un servizio pubblico, ad usum populi, a vantaggio della collettività e non dell'interesse privato.
Quattordici acquedotti che portavano all'Urbe un miliardo di litri d'acqua al giorno, 247 vasche di decantazione (castella), le numerose fontane ornamentali, le grosse canalizzazioni delle case private hanno fatto pensare che nella case romane vi fosse una distribuzione di acqua corrente. Ma non era così: anzitutto solo con il principato di Traiano l'acqua (aqua Traiana) di sorgente fu portata sulla riva destra del Tevere dove la gente sino ad allora si era dovuta servire di quella dei pozzi. Poi anche nella riva sinistra le derivazioni collegate ai castella, venivano concesse dietro pagamento di un canone solo a titolo strettamente personale e per le terre agricole.
Vi era molto rigore nella concessione di questi attacchi costosissimi all'acquedotto tanto che dopo poche ore dalla morte di chi ne usufruiva venivano immediatamente soppresse dall'amministrazione.
Queste derivazioni poi riguardavano come al solito le case signorili della domus o dei pianterreni: nessuna colonna portante che possa far pensare che l'acqua fosse portata ai piani superiori è stata mai trovata negli scavi archeologici. I testi antichi testimoniano questa situazione: nelle commedie di Plauto il padrone di casa si preoccupa di avere sempre una riserva d'acqua.
Nelle Satire di Giovenale si indicano i portatori d'acqua (aquarii) come collocati all'ultimo gradino della schiavitù ma ritenuti così necessari che la legge della successione stabiliva che essi, con i portieri (ostiarii) e gli spazzini (zetarii), dovessero passare di proprietà assieme all'edificio. I vigili del fuoco poi imponevano ai padroni di casa di far trovare sempre delle riserve d'acqua pronte per spegnere gli eventuali incendi, obbligo questo inutile se vi fosse stata l'acqua corrente nelle insulae che proprio per questa mancanza, specie nei piani più alti dove ce ne era più bisogno, difettavano della pulizia necessaria, complicata dalla mancanza di fognature.
Il sistema fognario
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Gabinetti pubblici in Ostia antica
A tutti è noto il sistema fognario romano con la famosa Cloaca Massima, la più antica delle fogne romane, ancora funzionante, iniziate a costruire nel VI secolo a.C. e continuamente estese sotto la Repubblica e l'Impero. Il sistema fognario fu merito soprattutto di Agrippa che fece riversare nel sistema fognario anche l'acqua in eccesso degli acquedotti e che lo rese così spazioso che poteva essere percorso in barca.
I romani tuttavia non la utilizzarono al massimo delle sue potenzialità, servendosene solo per eliminare i liquami delle abitazioni al pianterreno e delle latrine pubbliche. Mancano prove certe dagli scavi archeologici che i piani alti delle insulae fossero collegate al sistema fognario e i più poveri dovevano necessariamente, pagando una modesta somma, far uso delle latrine pubbliche gestite da appaltatori del fisco (conductores foricarum). Contrariamente a quello che si può pensare le latrine pubbliche erano dei locali arredati con una certa ricercatezza. Vi era un emiciclo o un rettangolo attorno al quale scorreva acqua in continuazione in canali davanti ai quali erano una ventina di sedili in marmo forniti di fori su cui si incastrava tra due braccioli raffiguranti dei delfini la tavoletta adatta alla bisogna. L'ambiente era riscaldato e ornato persino con statue.
I più poveri o avari si servivano invece degli orci sbeccati per l'uso e collocati davanti al laboratorio di un gualchieraio che usava così gratuitamente l'urina per il suo lavoro.
Poteva esserci poi un recipiente apposito, se il proprietario aveva dato il consenso, collocato nel vano della scala, il dolium, dove inquilini potessero svuotare i loro vasi. Da Vespasiano in poi i commercianti di concimi acquistarono il diritto di svuotarli periodicamente.
Nella Roma imperiale esistevano anche dei pozzi neri (lacus) che deturpavano la città non solo per gli evidenti motivi ma anche perché spesso le donne di malaffare vi gettavano o esponevano i loro neonati. Non si riuscì a liberarsi di questa sconcezza, se ancora sussisteva nella Roma del grande imperatore Traiano.
Per quelli poi che non volevano affaticarsi ad andare ai luoghi di scarico o fare le ripide scale della loro insula, il metodo più facile per sbarazzarsi delle loro deiezioni era quello di buttarle in strada dalla finestra, con quale soddisfazione dei passanti è facile immaginare. Ma nella Roma dei giurisperiti si cercò in tutti i modi di cogliere questi sciagurati sul fatto organizzando delle sorveglianze apposite e di punirli duramente con le leggi che, tanto il reato era sentito dall'opinione pubblica, videro la dotta consulenza del grande giurista Ulpiano.
Fonte: WIKIPEDIA
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« Vista l'importanza della città e l'estrema densità della popolazione, è necessario che si moltiplichino in numero incalcolabile gli alloggi. Poiché gli alloggi al solo piano terra non possono accogliere tale massa di popolazione nella città, siamo stati costretti, considerando questa situazione, a ricorrere a costruzioni in altezza. »
(Vitruvio, De architectura, II, 8, 17)
La casa romana, dovendo tener conto nella sua struttura architettonica del poco spazio a disposizione per la sua edificazione, contrariamente a quello che si pensa, era molto simile a quella dei nostri giorni.
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Ricostruzione ipotetica dell'interno di una domus romana.
L'aumento della popolazione e lo spazio edificabile
Nell'ipotesi che la Roma imperiale si estendesse per una superficie di circa 2.000 ettari, questa era largamente insufficiente per le abitazioni di una popolazione calcolata di quasi 1.200.000 abitanti. Esistevano una serie di edifici pubblici, santuari, basiliche, magazzini il cui uso abitativo era riservato a un esiguo numero di persone: custodi, magazzinieri, scribi ecc. Bisogna tener conto poi, nel restringimento dello spazio da utilizzare per le abitazioni, di quello occupato dal corso del Tevere, dai parchi e giardini che situati sulle pendici dell'Esquilino e del Pincio, dal quartiere Palatino, riservato esclusivamente all'imperatore e infine dal largo terreno del campo di Marte i cui templi, palestre, tombe, portici occupavano 200 ettari dai quali però le abitazioni erano escluse per il rispetto dovuto agli dei.
Se si tiene conto dello insufficiente sviluppo tecnico dei trasporti si può sostenere che i Romani fossero condannati ad abitare in limiti territoriali angusti, quali erano quelli fissati da Augusto e dai suoi successori. I Romani incapaci di adeguare il territorio abitativo all'aumento della popolazione, a meno di non frantumare l'unità della vita dell'Urbe, dovettero cercare come rimedio all'esiguità del territorio e alla strettezza delle strade cittadine lo sviluppo in altezza delle loro case.
Solo dopo gli studi pubblicati ai primi del Novecento sugli scavi archeologici di Ostia e sui resti trovati sotto la scala dell'Ara Coeli, su quelli vicini al Palatino in via dei Cerchi, hanno consentito di avere la reale concezione della struttura della casa romana fino ad allora confusa con le case trovate negli scavi di Pompei ed Ercolano dove prevaleva la classica domus dei ricchi che era molto diversa dalle insulae che costituivano la maggioranza in Roma: tra queste ultime e le domus c'è la stessa differenza che oggi potremmo vedere tra un palazzo e un villino in una località di villeggiatura.
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Pianta e assonometria di una tipica domus romana.
1. fauces (ingresso)
2. tabernae (botteghe artigiane)
3. atrium (atrio)
4. impluvium (cisterna per l'acqua)
5. tablinum (studio)
6. hortus (orto/giardino)
7. oecus tricliniare (sala da pranzo)
8. alae (ambienti laterali)
9. cubiculum (camera)
La domus e l'insula
La casa romana poteva essere di due tipi: la domus e l'insula. La struttura architettonica della domus, un'abitazione signorile privata urbana che si distingueva dalla villa suburbana, che invece era un'abitazione privata situata al di fuori delle mura della città, e dalla villa rustica, situata in campagna e dotata di ambienti appositi per i lavori agricoli, prevede che sia costituita da mura senza alcuna finestra verso l'esterno e totalmente aperta invece verso l'interno; al contrario le case popolari hanno aperture verso l'esterno e quando l'insula è costituita da una serie di edifici disposti a quadrilatero, si rivolge verso un cortile centrale: inoltre ha porte, finestre e scale sia verso l'esterno sia verso l'interno.
La domus si compone di ambienti standard, prestabiliti con stanze che si susseguono in un ordine fisso: fauces, atrium, alae, triclinium, tablinum, peristilio.
L'insula è costituita invece dai cenacula, quelli che oggi chiameremo appartamenti, composti da ambienti che non hanno una funzione d'uso prestabilita e che sono posti sullo stesso piano lungo una verticale secondo una sovrapposizione rigorosa.
La domus che riprende i canoni della architettura ellenistica si dispone in senso orizzontale mentre l'insula, apparsa verso il IV secolo a.C. si sviluppa in verticale per rispondere alle esigenze di una popolazione sempre più numerosa raggiungendo un'altezza che meravigliò gli antichi e noi moderni soprattutto per la sua somiglianza con le nostre abitazioni urbane.
Ma già dal III secolo a.C. ci si era abituati a vedere insulae di tre piani (tabulata, contabulationes, contignationes) tanto che Tito Livio, narrando dei prodigi che nell'inverno del 218-17 a.C. avevano preceduto l'offensiva di Annibale, racconta di un toro sfuggito al suo padrone nel Forum Boarium che, infilando un portone, era salito sino al terzo piano e si era lanciato nel vuoto terrorizzando i passanti.
L'altezza di queste insulae era già superata in età repubblicana e Cicerone scrive che Roma con le sue case appare come sospesa nell'aria («Romam cenaculis sublatam atque suspensam»).
L'insula nell'età dell'Impero
Come scrive Vitruvio «la maestà dell'Urbe, l'accrescimento considerevole della sua popolazione portarono di necessità un'estensione straordinaria delle sue abitazioni, e la situazione stessa spinse a cercare un rimedio nell'altezza degli edifici». Lo stesso Augusto spaventato per l'incolumità dei cittadini e dai crolli ripetuti di tali case emanò un regolamento che vietava ai privati di innalzare costruzioni che superassero i 70 piedi (poco più di 20 metri). L'avidità dei costruttori approfittò dei limiti imposti dalla regolamentazione augustea per sfruttare al massimo lo spazio costruendo in altezza anche là dove non era necessario come osservava meravigliato Strabone che al grande porto di Tiro nel Libano le case erano quasi più alte di quelle dell'Urbe. Così Giovenale irride a questa smania di altezza di case che si reggono su pali sottili e lunghi come flauti e il retore del II secolo, Publio Elio Aristide osserva che se si disponessero in orizzontale le case romane si arriverebbe sino alle rive del Mare Adriatico.
L'insula Felicles
Inutilmente Traiano aveva reso più restrittivo il regolamento di Augusto abbassando il limite dell'altezza delle insulae a 60 piedi (circa 18 metri e mezzo) poiché le necessità abitative costringevano a superare questi limiti. Ma anche la speculazione edilizia aveva la sua parte se nel IV secolo, tra il Pantheon e la Colonna Aurelia era stato innalzato un mostruoso edificio, meta di stupiti visitatori per ammirarne l'altezza raggiunta: si trattava dell'edificio di Felicula, l'insula Felicles costruita duecento anni prima sotto Settimio Severo (193-211). La fama di questo straordinario edificio era giunta sino in Africa dove Tertulliano, predicando contro gli eretici valentiniani diceva che questi nel tentativo di avvicinare la creazione sino a Dio creatore avevano trasformato «l'universo in una specie di grande palazzo mobiliato» con Dio sotto i tetti (ad summas tegulas) con tanti piani quanti ne aveva a Roma l'insula Felicles.
Certo l'esempio di questo grattacielo rimane unico nella Roma imperiale ma era molto frequente che venissero costruiti edifici di cinque, sei piani. Giovenale ci racconta di considerarsi fortunato perché per tornare nel proprio alloggio a Via del Pero sul Quirinale, si doveva arrampicare sino al terzo piano ma per altri non era così. Il poeta satirico in occasione di uno dei frequenti incendi che colpivano le zone popolari della città immagina di rivolgersi a un abitante di un'insula che sta andando a fuoco e che abita molto più in alto del terzo piano: «Già il terzo piano brucia e tu non sai nulla. Dal pianterreno in su c'è lo scompiglio, ma chi arrostirà per ultimo è quel miserabile che è protetto dalla pioggia solo dalle tegole, dove le colombe in amore vengono a deporre le loro uova».
Le insulae di lusso
D'altra parte le insulae non erano tutte destinate ai ceti meno facoltosi. Vi erano infatti le insulae che al piano terra aveva un solo appartamento dalle caratteristiche molto simili a una casa signorile, domus infatti veniva chiamato, mentre ai piani superiori erano i cenacula destinate a inquilini più poveri; molto più diffuse erano poi le insulae che al pianterreno avevano una serie di botteghe o magazzini, le tabernae di cui sono rimaste le ossature a Ostia. Pochi erano quelli che potevano permettersi una domus al pianterreno: al tempo di Cesare, Celio pagava un affitto annuo di 30000 sesterzi. Ci si può fare un'idea dell'esosità degli affitti del tempo se si pensa che un moggio di grano costava tra i 3 e i 4 sesterzi e che le largitiones prevedevano in 5 moggi la quantità necessaria a una famiglia media per sostenersi per un mese e che il salario di un manovale era, ai tempi di Cicerone, di 5 sesterzi al giorno mentre quello di un professore di retorica di una scuola pubblica, ai tempi di Antonino Pio, ad Atene oscillava dai 24.000 ai 60.000 sesterzi all'anno che era la stessa cifra iniziale, che poteva però arrivare sino a 200000 sesterzi annui, di un membro del consilium d'Augusto.
Le tabernae
Le tabernae si aprivano lungo la strada occupandone quasi tutta la lunghezza e avevano una porta centinata i cui battenti venivano abbassati e chiusi accuratamente con chiavistelli ogni sera. A chi le osservava dall'esterno apparivano come dei comuni magazzini o come la bottega di un artigiano o di un mercante, ma entrando si poteva notare in fondo una scala in muratura di tre, quattro gradini che si univa a una scala di legno che portava a un soppalco che prendeva luce da una finestra oblunga collocata sopra l'ingresso della taberna: questa era la casa del bottegaio le cui condizioni economiche spesso erano inferiori a quelle degli stessi inquilini delle cenacula degli ultimi piani, dovendo adattarsi a vivere in un unico ambiente dove si cucinava, si dormiva, si lavorava. L'espressione latina giuridica percludere inquilinum, bloccare un locatario, sembra derivasse dal modo con cui il proprietario costringesse gli abitanti delle tabernae, debitori dell'affitto, a pagarlo, togliendo la scala di legno che portava alla loro stanzuccia.
I crolli e gli incendi
Se le insulae per molti aspetti erano simili ai nostri palazzoni moderni in effetti erano però esteticamente più apprezzabili: le pareti erano ornati con combinazioni di legno e stucco, gli ambienti avevano grandi finestre e porte, le file delle tabernae erano coperte da un portico, e là dove la larghezza della strada lo permetteva, vi erano anche delle logge (pergulae) poggianti su i portici o balconi (maeniana) in legno o in mattoni. Spesso piante rampicanti avvolgevano le balaustre dei balconi su cui si potevano vedere anche vasi di fiori, quasi dei piccoli giardini come racconta Plinio il Vecchio. A questo gradevole aspetto esteriore, non corrispondeva un'altrettanta solidità delle insulae che non avevano una base proporzionale alla loro altezza e che inoltre venivano edificate da costruttori disonesti che economizzavano sullo spessore dei muri e dei pavimenti e sulla qualità dei materiali. Ci racconta Giovenale:
«Chi teme o mai temé che gli crollasse
la casa nella gelida Preneste
o tra i selvosi gioghi di Bolsena [...]?
Ma noi in un'urbe viviam che quasi tutta
si sostiene su esili puntelli;
questo rimedio gli amministratori
alle mura cadenti oppongono solo,
e poi, quando tappato hanno alle vecchie
crepe gli squarci, voglian che si dorma
placidi sotto gli imminenti crolli.»
(GIOVENALE, III, 190 sgg.)
Ai frequenti crolli si univano gli incendi che si propagavano celermente sia per la quantità di legno che veniva usata per alleggerire le strutture e di travi per sostenere i pavimenti sia per l'angustia dei vicoli.
Il plutocrate Crasso di questi eventi ne aveva fatto oggetto di speculazione edilizia: avuta notizia di questi disastri si presentava sui luoghi e, dopo aver consolato l'afflitto proprietario dell'edificio crollato o andato in fumo, gli offriva di acquistare il suolo su cui sorgeva naturalmente a un prezzo molto più basso del valore reale; con una sua squadra di muratori appositamente addestrati ricostruiva in tempi brevi un'altra insula da cui ricavare enormi profitti.
Sebbene fin dai tempi di Augusto, Roma disponesse di un corpo di pompieri e di vigili, così frequenti erano gli incendi che, come dice Ulpiano, nella Roma imperiale non passasse giorno senza parecchi incendi (plurimis uno die incendiis exortis).
Quando si verificavano questi sciagurati eventi, i poveri erano in un certo senso favoriti rispetto ai ricchi delle domus: quelli infatti si mettevano più rapidamente in salvo non avendo oggetti preziosi o mobili, quasi assenti nei loro alloggi, da mettere in salvo. Non che i ricchi avessero una gran quantità di mobilia da preservare dal fuoco, ma piuttosto oggetti d'arte preziosi per la loro manifattura, quelli che noi chiameremo soprammobili.
Il mobilio della casa
Per i Romani la maggior parte del mobilio consisteva nei letti. Mentre il povero aveva per letto un giaciglio di mattoni accostato al muro, il ricco disponeva di una serie di letti su i quali non solo si dormiva, ma si mangiava, si scriveva, si riceveva.
I più diffusi erano dei lettini a una piazza (lectuli); vi erano poi quelli a due piazze per gli sposi (lectus genialis), a tre piazze per la sala da pranzo (triclivia) arrivando sino a sei piazze per i ricconi che volevano stupire i loro ospiti. I letti potevano essere in bronzo, più spesso in legno lavorato o in legni pregiati esotici che lucidati emanavano tanti colori come le piume di un pavone (lecti pavonini).
Molto diversi dai nostri tavoli a quattro gambe erano quelli romani (mensae) spesso costituiti da ripiani di marmo poggianti su un piede su i quali venivano esposti per essere ammirati gli oggetti più preziosi (cartibula), o da tavolini tondi in legno o bronzo con tre o quattro gambe mobili.
Molto più rare erano le sedie di cui i romani non sentivano la necessità poiché usavano prevalentemente i letti. Vi era una particolare sedia, una specie di seggiolone (thronus) ma era destinato agli dei. La sedia con la spalliera più o meno inclinata (cathedra) era usata dalle grandi dame romane che Giovenale accusa di mollezza. I resti di questa particolare sedia sono stati ritrovati nella sala di ricevimento del palazzo di Augusto e nello studio di Plinio il Giovane dove egli riceveva i suoi amici. Successivamente divenne la sedia del maestro nella schola e del prete cristiano.
I romani sedevano di solito su dei banchi (scamna) o preferivano usare degli sgabelli senza spalliera e braccioli (subsellia) che portavano con sé.
Tappeti, coperte, trapunte completavano l'arredamento della casa romana stesi sul letto o sulle sellae dove brillava il vasellame in argento dei ricchi, spesso istoriato d'oro dai maestri cesellatori e incastonato di pietri preziose. Ben diverso quello dei poveri in semplice argilla.
Illuminazione e riscaldamento
L'illuminazione della casa romana lasciava molto a desiderare non perché non vi fossero finestre per illuminare e ventilare gli ambienti ma perché spesso le finestre delle case romane erano sprovvisti di quel lapis specularis, sottile lastra di vetro o di mica, di cui non sono stati ritrovati frammenti neppure nelle domus signorili di Ostia. Il lapis specularis veniva usato per chiudere una serra, o una sala da bagno o una portantina ma per le finestre delle case signorili si utilizzavano tele o pelli che lasciavano passare il vento e la pioggia oppure battenti in legno che riparavano meglio dal freddo o dal calore ma che non lasciavano passare la luce. Plinio il Giovane racconta come per ripararsi dal freddo era costretto a vivere allo scuro tanto che neppure si vedeva il bagliore dei lampi.
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Scavi delle terme di Juliomagus con le vestigia dell'Ipocaustum (riscaldamento da pavimento)
Molto precaria era la condizione delle insulae per quanto riguarda il riscaldamento essendo impossibile accendere un fuoco come facevano i contadini nelle loro capanne con un'apertura in alto per far uscire il fumo e le scintille, né esisteva come si è per molto tempo creduto che l'insula avesse un riscaldamento centralizzato.
Gli impianti di riscaldamento romani erano costituiti dall’ipocausi, uno o due fornelli alimentati secondo l'intensità o la durata della fiamma da legna, carbone vegetale o fascine e da un canale attraverso il quale passava il calore assieme alla fuliggine e al fumo che arrivavano nell'ipocausto adiacente, formato da piccole pile di mattoni (suspensurae) attraverso il quale circolava il calore che scaldava il pavimento delle stanze sospese sopra lo stesso ipocausto.
Le suspensurae non ricoprivano mai l'intera superficie degli ipocausti per cui per scaldare il pavimento di una stanza occorrevano più ipocausi. Era quindi impossibile che questo sistema di riscaldamento potesse essere applicato in modo centralizzato a edifici a diversi piani mentre poteva essere utilizzato per riscaldare un vano unico e isolato come si vede nelle stanza da bagno delle ville pompeiane o nel calidarium delle terme.
Né esistevano camini nell'insula. A Pompei solo in due casi in negozi di fornai sono state trovate qualcosa di simile alle nostre canne fumarie: una però era troncata e un'altra arrivava non al tetto ma a una stufa di un vano superiore.
La mancanza di un sistema efficace di riscaldamento costringeva per riscaldarsi a usare bracieri portatili o montati su ruote con il pericolo costante di asfissia per i gas di monossido di carbonio.
Gli impianti idraulici
Come è sbagliato pensare che l'insula godesse di un impianto di riscaldamento centrale così è falso credere che nelle case dei romani vi fosse la comodità di avere a propria disposizione l'acqua corrente.
Non bisogna dimenticare infatti che la fornitura dell'acqua a spese dello stato era stata concepita fin dall'inizio come un servizio pubblico, ad usum populi, a vantaggio della collettività e non dell'interesse privato.
Quattordici acquedotti che portavano all'Urbe un miliardo di litri d'acqua al giorno, 247 vasche di decantazione (castella), le numerose fontane ornamentali, le grosse canalizzazioni delle case private hanno fatto pensare che nella case romane vi fosse una distribuzione di acqua corrente. Ma non era così: anzitutto solo con il principato di Traiano l'acqua (aqua Traiana) di sorgente fu portata sulla riva destra del Tevere dove la gente sino ad allora si era dovuta servire di quella dei pozzi. Poi anche nella riva sinistra le derivazioni collegate ai castella, venivano concesse dietro pagamento di un canone solo a titolo strettamente personale e per le terre agricole.
Vi era molto rigore nella concessione di questi attacchi costosissimi all'acquedotto tanto che dopo poche ore dalla morte di chi ne usufruiva venivano immediatamente soppresse dall'amministrazione.
Queste derivazioni poi riguardavano come al solito le case signorili della domus o dei pianterreni: nessuna colonna portante che possa far pensare che l'acqua fosse portata ai piani superiori è stata mai trovata negli scavi archeologici. I testi antichi testimoniano questa situazione: nelle commedie di Plauto il padrone di casa si preoccupa di avere sempre una riserva d'acqua.
Nelle Satire di Giovenale si indicano i portatori d'acqua (aquarii) come collocati all'ultimo gradino della schiavitù ma ritenuti così necessari che la legge della successione stabiliva che essi, con i portieri (ostiarii) e gli spazzini (zetarii), dovessero passare di proprietà assieme all'edificio. I vigili del fuoco poi imponevano ai padroni di casa di far trovare sempre delle riserve d'acqua pronte per spegnere gli eventuali incendi, obbligo questo inutile se vi fosse stata l'acqua corrente nelle insulae che proprio per questa mancanza, specie nei piani più alti dove ce ne era più bisogno, difettavano della pulizia necessaria, complicata dalla mancanza di fognature.
Il sistema fognario
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Gabinetti pubblici in Ostia antica
A tutti è noto il sistema fognario romano con la famosa Cloaca Massima, la più antica delle fogne romane, ancora funzionante, iniziate a costruire nel VI secolo a.C. e continuamente estese sotto la Repubblica e l'Impero. Il sistema fognario fu merito soprattutto di Agrippa che fece riversare nel sistema fognario anche l'acqua in eccesso degli acquedotti e che lo rese così spazioso che poteva essere percorso in barca.
I romani tuttavia non la utilizzarono al massimo delle sue potenzialità, servendosene solo per eliminare i liquami delle abitazioni al pianterreno e delle latrine pubbliche. Mancano prove certe dagli scavi archeologici che i piani alti delle insulae fossero collegate al sistema fognario e i più poveri dovevano necessariamente, pagando una modesta somma, far uso delle latrine pubbliche gestite da appaltatori del fisco (conductores foricarum). Contrariamente a quello che si può pensare le latrine pubbliche erano dei locali arredati con una certa ricercatezza. Vi era un emiciclo o un rettangolo attorno al quale scorreva acqua in continuazione in canali davanti ai quali erano una ventina di sedili in marmo forniti di fori su cui si incastrava tra due braccioli raffiguranti dei delfini la tavoletta adatta alla bisogna. L'ambiente era riscaldato e ornato persino con statue.
I più poveri o avari si servivano invece degli orci sbeccati per l'uso e collocati davanti al laboratorio di un gualchieraio che usava così gratuitamente l'urina per il suo lavoro.
Poteva esserci poi un recipiente apposito, se il proprietario aveva dato il consenso, collocato nel vano della scala, il dolium, dove inquilini potessero svuotare i loro vasi. Da Vespasiano in poi i commercianti di concimi acquistarono il diritto di svuotarli periodicamente.
Nella Roma imperiale esistevano anche dei pozzi neri (lacus) che deturpavano la città non solo per gli evidenti motivi ma anche perché spesso le donne di malaffare vi gettavano o esponevano i loro neonati. Non si riuscì a liberarsi di questa sconcezza, se ancora sussisteva nella Roma del grande imperatore Traiano.
Per quelli poi che non volevano affaticarsi ad andare ai luoghi di scarico o fare le ripide scale della loro insula, il metodo più facile per sbarazzarsi delle loro deiezioni era quello di buttarle in strada dalla finestra, con quale soddisfazione dei passanti è facile immaginare. Ma nella Roma dei giurisperiti si cercò in tutti i modi di cogliere questi sciagurati sul fatto organizzando delle sorveglianze apposite e di punirli duramente con le leggi che, tanto il reato era sentito dall'opinione pubblica, videro la dotta consulenza del grande giurista Ulpiano.
Fonte: WIKIPEDIA
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Re: Spartacus
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Nasir: You lower fucking guard! do so against the Romans and fall to your end.
Castus: Nasir! Point has been well made.
Nasir: Take meal and and reflect.
Castus: Come. Let us fill discountent of stomach as well.
Nasir: I am of no desire.
Castus: You have partaken of none, since unfortunate news. Nor of nourishing words?
Nasir: You hold it so? Does is not life spirit knowing the man that stood between you and hearts union has been...forever...removed from path?
Castus: I often held disagreement with Agron. Yet I am not absent feeling towards his fate. Or wound inflicted upon one so undeserving.
Nasir: You would turn grief into fucking opportunity?!?
Castus: I seek only to give comfort....
Nasir: You seek what you always have! Agron is gone from this world because of it!
Castus: He is gone because he made choice.
Nasir: He is gone because of me! He would not have left with Crixus had he not seen the way my eyes fell upon you!!
Castus: That fault lies only in the times that we live, and in the Gods that turn away from the suffering of good men.
Nasir: Stai abbassando la tua fottuta guardia! Farlo contro i Romani decreterà la tua fine.
Castus: Nasir! Ha capito il Punto.
Nasir: Vai a mangiare e rifletti.
Castus: Vieni. Riempiamo il malcontento stomaco anche noi.
Nasir: Non ne ho desiderio.
Castus: Non hai mangiato nulla, a causa di una spiacevole notizia. Vuoi nutrirti a parole?
Nasir: La metti così? Non è un bel comportamento sapendo che l'uomo che stava tra te e l'unione dei nostri cuori è stato ... per sempre ... rimosso dal percorso?
Castus: Sono stato spesso in disaccordo con Agron. Eppure non mi sento indifferente verso il suo destino. O delle ferite inflitte così immeritevoli.
Nasir: Stai trasformando il dolore in una fottuta opportunità?!?
Castus: Cerco solo di dare conforto....
Nasir: Cerchi quello che hai sempre avuto! Agron se n'è andato da questo mondo a causa di questo!
Castus: Se n'è andato perché ha fatto la sua scelta.
Nasir: Se n'è andato a causa mia! Non sarebbe andato con Crixus se non avesse visto il modo in cui i miei occhi cadevano su di te!!
Castus: La colpa è solo dei tempi in cui viviamo, e negli Dei che si allontanano dalla sofferenza degli uomini buoni.
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SPARTACUS
GLI DEI DELL’ARENA
Dopo l’ottima prima stagione di Spartacus, non bisogna apprestarsi alla visione della seconda, bensì immergersi in un prequel di soli sei episodi chiamato ‘Gli dei dell’Arena’.
Il motivo principale, che ha portato la produzione di questa serie a scegliere di girare un prequel, è stato quello di permettere ad Andy Whitfield di poter affrontare la sua battaglia contro la malattia che lo aveva colpito, dandogli così il tempo di curarsi e rimettersi in sesto per girare poi la seconda stagione già prevista: Vengeance. Purtroppo Andy non è riuscito a vincere la sua battaglia, ma il fatto che la Produzione abbia voluto aspettarlo ci fa capire che si puntava molto su questo bravo attore, e che anche se per breve tempo, egli, interpretando Spartacus, aveva già lasciato un segno. Insomma la sua interpretazione aveva convinto tutti: produttori e fans, e per una volta la logica del profitto e dei tempi sempre più rapidi di produzione ha lasciato spazio al cuore e al rispetto umano.
Certo, data questa motivazione, io avrei preferito che non venisse mai girato un Prequel, ma televisivamente parlando la domanda da porsi è: ‘C’era davvero bisogno di un prequel per questa serie?’
Beh, la risposta è: Sì!
Non che la rivolta di Spartacus e dei suoi Ribelli non sarebbe andata avanti senza, ma grazie al prequel ci vengono mostrate molte cose, e viene introdotto un personaggio che non conoscevamo e che risulterà importante ai fini della storia: il Gladiatore Gannicus!
Inoltre il prequel non è stato buttato lì così, fatto tanto per prendere tempo, no, anzi è davvero ben girato, gli attori (molti dei quali già ci erano noti) recitano al loro meglio, c’è la solita accuratezza nei particolari, la storia narrata avvince e convince. Insomma si nota l’impegno di tutti nel portare avanti questo progetto.
Questa miniserie si colloca qualche tempo prima dell’arrivo di Spartacus nella Scuola di Batiato e ci mostra le storie parallele di due personaggi principali: Quinto Lentulo Batiato, appunto, del quale seguiremo gli inizi del percorso nella sua carriera da lanista, quando il padre Tito, gli affida l’amministrazione del suo Ludus; e Gannicus, del quale seguiremo le gesta nell’Arena, che lo porteranno infine a guadagnarsi lo status di Liberto.
Forse, però, l’aspetto più interessante di questo prequel è che ci mostra molti personaggi che già conoscevamo, ma ci svela cose di loro che ignoravamo.
Insomma, c’erano cose che sapevamo già e cose di cui non eravamo a conoscenza!
Ed è proprio questo doppio binario che vorrei seguire.
Ma prima vorrei dire qualcosa sul personaggio di Gannicus.
Gannicus
Gannicus è uno schiavo Celta, combatte come Gladiatore per la Scuola di Batiato, e anzi è il miglior gladiatore che il lanista possiedeGannicus è: sfrontato, spavaldo, sicuro di sé, audace, temerario, sprezzante del pericolo e della morte. E’ un ottimo gladiatore, tanto abile da essere in grado di affrontare avversari anche bendato. Ha una bella faccia tosta, non teme niente e nessuno, entra nell’Arena ogni volta con enorme sicurezza, certo di ottenere una gloriosa vittoria o fiero di andare incontro ad una gloriosa morte! D’altronde per lui l’unica cosa a cui deve aspirare un gladiatore è la gloria che si ottiene nell’Arena e l’unica cosa che un gladiatore merita è ricevere una degna morte pari a quelle che ha inflitto!
Gannicus ama i piaceri della vita, è dedito al vino e alla compagnia femminile, cose queste che può ottenere facilmente, grazie al suo status di gladiatore vincente. La sua fama infatti gli consente di godere di grandi privilegi rispetto agli altri compagni del Ludus: può spassarsela con le donne, ubriacarsi e poi il giorno dopo presentarsi in ritardo agli allenamenti, decidere come allenarsi, e tutto senza dare spiegazioni a nessuno, né al suo Maestro d’Armi, né al suo Padrone. Insomma la sua condizione gli consente una grande libertà, ma è pur sempre uno schiavo, e deve comunque obbedire agli ordini di Batiato!
Quest’ultimo comunque lo apprezza molto, è orgoglioso di avere un tale abile combattente nella sua Scuola, pronto a portare lustro e fama alla sua Casa e quindi al suo Nome. Batiato vede in Gannicus l’opportunità per la scalata al suo successo.
Con un tale Campione Quinto Lentulo Batiato può finalmente ottenere gli incontri nell’Arena che contano di più. Con le esaltanti vittorie di Gannicus può finalmente imporsi come uno dei lanisti di maggior successo e pian piano occupare un posto di sempre maggior importanza nella società. Ma quello che gli preme di più è ottenere un successo personale, liberandosi finalmente della pesante ombra di suo padre che grava su di lui! Quinto vuole dimostrare di essere un lanista in affari migliore del genitore, vuole dimostrarlo al mondo ma soprattutto allo stesso padre, che non ha mai avuto fiducia in lui. E per far questo punta tutto sulla figura di Gannicus.
Il padre, Tito, invece non ama Gannicus, non lo ritiene un Campione. Per lui un vero Campione è uno come Enomao (il suo preferito infatti), cioè un uomo assennato, con la testa sulle spalle, devoto al suo Padrone e alla sua Casa, ligio al dovere e soprattutto senza atteggiamenti da Star, tipici invece di Gannicus.
Gannicus va molto d’accordo con gli altri gladiatori della Scuola di Batiato. Essi infatti lo rispettano e vorrebbero essere come lui. Anche le nuove reclute lo ammirano, guardano a lui come un esempio da emulare, come il modello di lottatore che aspirano a diventare. Anche un giovane Crisso, arrivato da poco nel Ludus, prende Gannicus a modello. Crisso vuole diventare un grande lottatore, il migliore, e la prestanza fisica, la grinta e la rabbia non gli mancano di certo, ma per far sì che il suo sogno di diventare il Campione di Capua si realizzi sa che deve imparare tanto, e chi meglio del grande Gannicus può fargli da nave scuola in questo ambiente? Quindi Crisso cercherà di ‘rubare ’ il più possibile da Gannicus, cercherà di carpire i segreti dell’arte gladiatoria, di osservare gli atteggiamenti del Grande Campione, di ottenere da lui insegnamenti preziosi, e non esiterà a rivolgersi a lui per avere consigli in merito. Naturalmente questa situazione spazientisce alquanto Gannicus, che col suo bel caratterino, non ama far da balia alle nuove leve. Comunque tiene d’occhio il giovane Gallo, sicuramente vede in lui qualcosa, in un certo senso lo stima, e forse, anche se non lo ammetterebbe mai, un pochino sente la sua posizione di leader minacciata dall’ambizione e dalla grande voglia di farsi largo e di emergere che Crisso manifesta! In ogni caso Gannicus è un tipo molto sicuro di sé, ed è leale, e quindi, anche se col suo modo di fare da spaccone, ogni tanto elargirà a Crisso i preziosi consigli che quest’ultimo tanto anela.
Ma di tutti gli uomini presenti nel Ludus di Batiato, quello con cui Gannicus lega di più è Enomao. Enomao, infatti è il migliore amico di Gannicus. La loro amicizia è molto forte, e va oltre il condividere il destino da gladiatori, oltre il vivere insieme nello stesso luogo, oltre il rapporto di fratellanza dovuto all’appartenere alla stessa Confraternita. Enomao è per Gannicus come un vero e proprio fratello, ed è molto importante per lui! Credo che questa coppia di amici sia davvero ben assortita, oserei dire che sono quasi complementari: se Gannicus è molto estroverso, esuberante, sfrontato, chiassoso e vivace, Enomao di contro è molto più riflessivo, calmo, silenzioso e tranquillo. Se Gannicus ama mettersi in mostra, strafare, godere dei piaceri della vita, scherzare su ogni cosa, e assecondare i vizi; Enomao al contrario sa stare al suo posto, è un tipo sobrio, morigerato, rispettoso, serio, è un uomo di alti principi (l’onore e la fratellanza su tutti), e soprattutto è fedele a sua moglie della quale è molto innamorato e con la quale ama passare il suo tempo, quando non è impegnato negli allenamenti.
Insomma questi due amici sono molto diversi tra di loro, ma proprio per questo si completano: Gannicus ha bisogno di Enomao, della sua calma, della sua saggezza, del suo buon senso; in qualche modo l’amico, col suo carattere e col suo atteggiamento lo rassicura, lo tranquillizza, è per lui un punto fermo, una certezza in quella vita che, seppur gloriosa e appagante, è pur sempre dura, effimera, e incerta.
D’altro canto anche Enomao ha bisogno di Gannicus: l’esuberante Celta, infatti, col suo modo di fare, lo rallegra, vivacizza le sue dure giornate, stempera il suo carattere serioso, e riesce a farlo sorridere e a farlo aprire un po’!
Per il resto Enomao trae la sua forza dalla moglie Melitta. Lei svolge un po’ il ruolo che lui rappresenta invece per Gannicus. Infatti è Melitta a sostenere sempre il marito Enomao, a farlo sentire sicuro, a raccogliere le confidenze dei suoi pensieri, a tranquillizzarlo, a farlo andare avanti ogni giorno della sua vita.
Melitta ha anche un bellissimo rapporto con Gannicus. Essendo la moglie del suo migliore amico, questo fa di lei una preziosissima amica anche per il Celta che con lei si sente a suo agio, si confida e si mostra per quello che è, senza paura di rivelare lati di sé stesso che agli altri nasconde, senza doversi celare dietro una maschera di costante spensieratezza e incoscienza. Melitta infatti sa guardare nel profondo dell’animo di Gannicus, sa che non è frivolo come vuole dare a vedere, ed è sempre in pensiero per lui e per suo marito Enomao. I tre formano proprio un connubio perfetto, ma la loro amicizia verrà stravolta quando nuovi sentimenti si affacceranno nelle loro vite. Infatti, durante una delle trasgressive serate che la padrona Lucrezia dà nella Villa, Gannicus e Melitta, in quanto schiavi, sono costretti a giacere insieme per dare spettacolo ai viziosi patrizi presenti. I due sono restii a procedere e ad assecondare la richiesta dei ricchi Romani, ma sono obbligati a farlo e nonostante la loro resistenza, questo evento risveglierà dei sentimenti, probabilmente sopiti, ma già esistenti in loro. Gannicus infatti ama la compagnia del genere femminile, ma le donne di cui si circonda sono più che altro un passatempo, non ha un interesse amoroso vero e proprio verso nessuna di esse, e questo già poteva farci intuire che il suo cuore fosse rivolto a qualche altra donna, qualcuna che magari non potesse avere, e che le altre fossero solo una distrazione per fugare i suoi reali sentimenti. Inoltre Gannicus non ha mai tentato un approccio con Melitta, e questo non perché lei non fosse abbastanza carina, anzi…. Credo invece che il motivo sia perché la rispettasse troppo, e soprattutto rispettava Enomao e il loro bellissimo rapporto di amicizia fraterna. Ma dopo quella famosa notte le cose cambieranno: Melitta cambierà, Gannicus cambierà…..Enomao penserà che il cambio di atteggiamento dell’amico sia legato al nuovo ruolo che lui ha assunto, infatti Enomao è stato nominato nuovo Maestro d’armi e crede che questa sua nuova posizione, che lo pone, ad un livello diverso da quello dell’amico, possa creare a Gannicus qualche disagio, e mettere una certa distanza tra di loro. Ma non è questa la causa. La realtà è ben diversa: Gannicus e Melitta da quel momento in poi proveranno una grande attrazione l’uno per l’altra, e cercheranno in tutti i modi di resistere: Melitta tenterà, con le sue parole, di depistare Gannicus circa i reali sentimenti che prova per lui, respingendolo anche se lo ama, mentre Gannicus accetterà di essere venduto ad un altro lanista (facendosi battere volontariamente da Crisso in un incontro), per togliersi da quella difficile situazione, per non rovinare la sua amicizia con Enomao, e per non soffrire vedendo ogni giorno la donna che ama e che però non può avere. Ma nonostante tutti i loro sforzi, alla fine cederanno alla passione. Questo purtroppo avrà conseguenze tragiche, perché Melitta, recatasi nell’alloggio di Gannicus per salutarlo prima della sua partenza e per dichiarargli sinceramente i suoi reali sentimenti per lui, berrà del vino destinato a Tito, vino avvelenato da Lucrezia per eliminare il suocero, e questo le sarà fatale. La povera Melitta morirà proprio tra le braccia di Gannicus, disperato per averla persa e per non aver potuto far niente per salvarla. E questo tragico evento cambierà per sempre la vita del Celta.
Riassumendo dunque: Gannicus è apprezzato dal suo Padrone, ambito dagli altri lanisti che vorrebbero averlo nelle fila dei loro gladiatori, rispettato e ammirato dai suoi compagni nel Ludus, temuto dagli avversari nell’arena, amato dalle donne, osannato dal pubblico che va in delirio per lui ogni volta che scende nell’Anfiteatro per combattere. Insomma, citando il titolo del prequel, direi che basta una sola definizione per inquadrare questo personaggio: Gannicus è un vero e proprio dio dell’Arena!
E lui sa di esserlo, e ne va orgoglioso. Ma dopo la tragica morte di Melitta le cose cambieranno: tutto ciò che lo spingerà ad andare avanti sarà il desiderio di vendetta nei confronti dell’uomo che, erroneamente, lui e tutti gli altri ritengono responsabile della morte di Tito e dunque, accidentalmente, anche di quella di Melitta, ovvero Tullio! E Gannicus non avrà pace finché questa vendetta non sarà compiuta. Quindi aiuterà il suo Padrone Batiato ad eliminare Tullio.
Ma questa vendetta non servirà a placare il suo dolore.
Dopo la morte di Tito, Quinto prenderà di nuovo in mano gli affari della sua Casa: tutti gli accordi presi dal padre verranno meno, nessun gladiatore verrà mandato alle miniere, Gannicus non verrà più ceduto ma continuerà a lottare per la Scuola di Batiato, e tutti si prepareranno per i Giochi, per i vari combattimenti e per un epico scontro finale (al quale accederanno i vincenti dei vari incontri precedenti) nella nuova grande Arena: l’Anfiteatro Capuano.
Gannicus ora non ha più motivo per andare via, ma non ha neanche più motivazioni per continuare a battersi per quella Casa, che in qualche modo gli ha portato via l’amore della sua vita!
Ora il Celta non si mostra più baldanzoso ed esuberante, sembra l’ombra di sé stesso: è apatico, scoraggiato, triste, ed è in queste condizioni che si appresta ad affrontare nell’Arena gli avversari appartenenti alla Scuola di Solonio e poi anche i suoi compagni. Sì perché questo grandioso scontro finale, veramente degno di nota, si presenta come un Royal Rumble dell’antichità, insomma un tutti contro tutti. Infatti dopo aver eliminato tutti i gladiatori della Scuola avversaria, i sopravvissuti dovranno scontrarsi con i loro stessi compagni, perché alla fine dovrà restarne solo uno: colui che diventerà il Campione di Capua.
La scena della Sfida finale è davvero ben girata, c’è tutto quello che deve esserci per renderla memorabile: il pathos della situazione, il calare del buio, lo scenario imponente della grandiosa Arena, la folla in delirio sugli spalti, i gladiatori pronti a darsele di santa ragione fino a eliminare ogni avversario sulla loro strada per la gloria, lo scenografico cerchio di fuoco che delimita l’area di combattimento, le severe regole di gioco, ovvero chi cade fuori dal cerchio di fuoco è eliminato dalla competizione, e chi cade all’interno del cerchio di fuoco è eliminato da questo mondo, poiché perde inesorabilmente la vita!
Questo è lo scenario in cui i gladiatori, che hanno passato la fase preliminare, si apprestano a combattere, ognuno spinto dalle proprie ragioni:
- c’è chi vuole spargere sangue e portare morte;
- c’è Crisso, che vuole far vedere a tutti di cosa è capace e vuole finalmente avere un vero confronto con Gannicus (non come il precedente in cui il Celta si era lasciato sconfiggere volontariamente);
- c’è Ashur che, ritenuto da tutti indegno di essere un gladiatore, vuole mettersi in mostra ed ottenere la sua gloria;
- c’è Dagan, che cerca la sua personale vendetta nei confronti dell’ ex-amico Ashur;
- c’è Gneo, desideroso di dimostrare quanto vale anche nelle vesti di reziario,
ma tutti comunque vogliono vincere e ottenere il titolo di Campione.
E poi c’è Gannicus che deve scendere in campo e affrontare gli avversari per dimostrare ancora una volta il suo valore. Ma il Celta, che prima quasi si nutriva delle urla della folla e viveva dell’adrenalina che si sprigionava durante i combattimenti, non ha nessuna voglia di battersi: non gli interessa più versare sangue in nome della Casa di Batiato e non è più disposto ad andare incontro ad una onorevole morte sempre per quella stessa Casa. Ora Gannicus sembra solo rassegnato ad andare incontro al suo destino, qualunque esso sia.
Ma basteranno le parole del suo amico Enomao a farlo tornare in sé. Enomao gli darà di nuovo una ragione per cui combattere, spronandolo a scendere nell’Arena e a battersi in nome di Melitta. “Ogni vita che prenderai, tutto il sangue che verserai, Melitta lo vedrà dall’Oltretomba”, sarà sufficiente questa frase di Enomao a risvegliare Gannicus dal suo torpore, a far tornare in lui l’ardore di sempre.
Il Celta entrerà nell’Arena più determinato che mai, brandirà le sue spade con tutto il vigore possibile e abbattendo tutti i suoi avversari si garantirà un posto nel Combattimento finale, insieme ai suoi compagni che hanno passato gli incontri preliminari.
Seppur numericamente inferiori alla squadra di Solonio, gli uomini di Batiato sono molto agguerriti, e si batteranno valorosamente per ottenere il Titolo. Certo non mancheranno le incomprensioni, e ad un certo punto, tra lo stupore e il disappunto del loro Padrone Quinto, cominceranno a lottare tra di loro invece che concentrarsi sugli avversari della Scuola concorrente. Serpeggiano infatti tra di loro rancori, invidie e dissapori: Dagan cercherà di eliminare l’ex-amico Ashur, ma, nella confusione generale, sarà quest’ultimo a togliere di mezzo il Gigante siriano, sia dalla competizione, che dalla sua vita. Poi cercherà di convincere Crisso ad aiutarlo a far fuori Gannicus, ma il Gallo non ci starà e dopo aver ferito Ashur lo scaraventerà fuori dal cerchio di fuoco, eliminandolo dalla gara. Gneo era già stato tagliato fuori dai giochi, e come lui anche molti uomini di Solonio, chi eliminato, chi ucciso!
Ora restano solo tre concorrenti: Caburus per la Scuola di Solonio e Crisso e Gannicus per la Scuola di Batiato.
All’inizio Crisso e Gannicus uniranno le forze per fronteggiare il loro nemico comune e questo ci ricorderà molto il combattimento di Spartacus e Crisso contro Theokoles. Ma ad un certo punto Caburus, seppur da solo contro due avversari, sembrerà avere la meglio e ferirà gravemente Crisso all’addome. Gli basterebbe un altro fendente per uccidere il Gallo, ma Gannicus non lo permetterà: preso uno scudo da terra, scanserà con un colpo Crisso, facendolo finire oltre il cerchio di fuoco, ma soprattutto togliendolo dalle grinfie dell’enorme Caburus pronto a strappargli la vita! Così Crisso vede sfumare di nuovo la possibilità di un confronto col Celta, ma sarà salvo, e tutto per merito di Gannicus.
Ora l’equilibrio numerico è ristabilito: le due Scuole hanno un gladiatore a testa in campo, ma Gannicus è visibilmente stanco, provato, e tenterà in tutti i modi di difendersi dagli attacchi del suo avversario, fino a quando, allo stremo delle sue forze cadrà a terra senza armi, senza niente con cui proteggersi, e privo di forze.
Questa scena è stupenda: il tempo rallenta, sembra quasi fermarsi, la folla è ammutolita, Gannicus sembra ormai finito, a Caburus basterebbe solo avvicinarsi e sferrare il colpo di grazia per finire il suo rivale. Ma ecco che avviene l’inaspettato: Gannicus, sdraiato a terra, alza la testa ed incrocia gli occhi del suo amico Enomao. Tutta l’Arena ha gli occhi puntati sul gladiatore Celta: il pubblico, i suoi Padroni, i suoi compagni, ma gli unici occhi importanti per Gannicus sono quelli di Enomao, che ha osservato tutto il combattimento dietro il cancello di ingresso all’Arena, come un bravo Maestro segue i suoi allievi.
Lo sguardo dell’amico si rivelerà per Gannicus come la più potente delle armi, quello sguardo così intenso sarà come un’iniezione di fiducia per il nostro gladiatore. Con i suoi occhi Enomao sarà capace di infondere coraggio e forza a Gannicus, il suo sguardo parlerà più di mille parole e farà capire a Gannicus, che può farcela, che non deve mollare, perché il suo amico fraterno, Enomao, crede in lui. E così, come poco prima, con le sue parole, Enomao aveva risvegliato nell’amico l’ardore necessario per battersi, ora con il suo sguardo e con un lieve cenno della testa riesce a dargli la forza necessaria ad andare avanti, a continuare a lottare. Così Gannicus, si alzerà in piedi sotto gli occhi attoniti della folla e nel clamore più totale avanzerà contro Caburus intercettando la sua lancia, spezzandola e conficcandone la punta dritta nella bocca dell’avversario, uccidendolo e ponendo termine alla competizione! La folla ora è in delirio, Batiato e Lucrezia non stanno più nella pelle dalla gioia, Solonio china il capo rassegnato alla sconfitta, Crisso osserva esterrefatto il compagno vincitore, e Gannicus, ancora incredulo per ciò che è riuscito a fare, cerca ancora una volta gli occhi di Enomao, quegli occhi che gli hanno salvato la vita. I loro sguardi si incontrano di nuovo, lanciandosi un cenno di intesa. Gannicus sembra dire : ‘Grazie fratello, ce l’ho fatta!’ e Enomao sembra rispodere: ‘Sapevo che potevi farcela, ne ero certo, ottimo lavoro, amico mio!’ Lo sguardo di Enomao fiero del suo amico è la più grande vittoria per Gannicus, che è felice di averlo reso orgoglioso con la sua impresa, e di aver reso onore a Melitta combattendo nel suo nome.[/size]
[size=16]La scuola di Batiato, dunque, trionfa; Gannicus vince e ottiene il titolo di Campione di Capua, ma quello che non si aspetta è che con questa gloriosa vittoria si guadagnerà anche la libertà. Infatti Solonio, per danneggiare Quinto, proporrà all’organizzatore dei Giochi di chiedere a Batiato di concedere la libertà al suo gladiatore che si è battuto così valorosamente e ha compiuto una tale impresa! E Quinto, seppur a malincuore, perché non vuole privarsi di un simile campione, sarà costretto ad accettare la proposta, concedendo la libertà a Gannicus, che in questo modo otterrà lo status di Liberto.
Nonostante Batiato cerchi di trattenerlo, offrendogli soldi e moltissimi privilegi e libertà di movimento, Gannicus deciderà comunque di andare via. I ricordi legati a quella Casa lo tormentano, la ferita per la perdita di Melitta è ancora aperta, e il dolore è ancora forte. A Gannicus non rimane che salutare tutti i compagni, e lasciare a Crisso la collana che lui porta al collo, che simboleggia l’essere il Campione della Scuola di Batiato e che comporta tenere alto l’onore di quella Casa. In questo modo Gannicus consegna di fatto la sua ‘eredità’ al Gallo, e siamo certi che questa è una delle ragioni per cui da quel momento in poi Crisso sarà sempre fedele ai valori della sua Confraternita e farà di tutto per portare in alto il nome della Scuola di Batiato.
Gannicus saluterà infine l’amico Enomao e riceverà da lui il Rudis, il pugnale che simboleggia la libertà ricevuta: d’ora in avanti Gannicus è un uomo libero.
E il prequel termina così, mostrandoci il gladiatore ormai libero che va per la sua strada, verso un futuro incerto ma ancora da scrivere, e mostrandoci invece il futuro di Quinto e della sua Casa, futuro che noi già conoscevamo dalla prima stagione, e che sappiamo sarà infausto per lui, poiché porterà la morte di Batiato e la fine della sua gloriosa Casa!
E ora passiamo a:
Ciò che sapevamo e ciò di cui non eravamo a conoscenza
Sapevamo che Quinto Lentulo Batiato era un lanista affermato, e che la sua Scuola a Capua godesse di buona fama, ma non sapevamo come fosse iniziata la sua carriera. Qui vediamo come cerca di liberarsi dell’ingombrante figura del padre. Liberarsi, quasi in tutti i sensi, perché Quinto, spinto anche dalla moglie Lucrezia, arriverà quasi ad uccidere il padre. Ma non lo farà, perché sente comunque rispetto filiale per il genitore. Quinto e Lucrezia arrivano a pensare di prendere questa decisione perché Tito Batiato, torna a Capua intenzionato a riprendere in mano gli affari della sua Casa, e quindi anche tutte le questioni in merito al Ludus e la gestione degli incontri nell’Arena. Vuole imporre al figlio il suo volere, e soprattutto pretende da lui che ripudi la moglie, in quanto questa non è in grado di dargli un erede. Ma Batiato non vuole accettare questa condizione, lui ama la moglie e non vuole separarsi da lei. Inoltre, ora che stava cominciando a gestire gli affari della sua Casa, non gradisce l’ingerenza del padre, insomma preferisce fare di testa sua e seguire la sua strada verso il successo e verso i contatti e le amicizie che contano a Roma. Tito non approva affatto i metodi seguiti dal figlio e da Lucrezia per farsi una posizione e migliorare il loro status sociale (e devo dire che non ha tutti i torti, visto le nefandezze che avvengono nella Casa), e non farà mistero di questa sua contrarietà, non lesinerà critiche e rimproveri, e alla fine darà al figlio un ultimatum: o Quinto lascerà Lucrezia, o i due dovranno abbandonare la Casa di Capua e andare a vivere altrove, perdendo tutti i loro agi, la loro servitù, e soprattutto dovendo lasciare tutta la gestione degli affari in mano a Tito. In questo modo Quinto conserverebbe la sua amata moglie, perdendo però qualsiasi altra cosa, e la sua carriera da lanista, che pian piano stava decollando, crollerebbe miseramente!
E se Quinto non riesce nell’intento di liberarsi dello scomodo padre, ci penserà Donna Lucrezia a portare avanti questo piano omicida, e il tutto all’insaputa dell’ ignaro marito.
Infatti dalla prima Stagione di Spartacus sapevamo che Tito era morto, lasciando tutto al figlio, ma ciò che non conoscevamo era come fosse morto!
Lucrezia per tenere Tito lontano da Capua, avvelenava un tantino il vino che l’uomo gradiva, per suscitare in lui effetti nocivi che lo facevano stare poco bene e lo inducevano a partire per curarsi. Va da sé che il povero Tito lontano dalla Casa di Capua stava bene e riacquistava forze, in quanto si allontanava dal vino alterato e da colei che lo rendeva tale. E all’inizio il piano di Lucrezia era proprio quello: fare solo star male il suocero, per tenerlo lontano da Capua e quindi dalla sua vita e da quella di suo marito. Ma quando Tito prende la decisione irremovibile di restare per sempre a Capua, occuparsi di nuovo degli affari di Casa Batiato, e cacciare via Lucrezia, quest’ultima non ci vede più, e modifica il suo piano, decidendo di allontanare da Capua Tito per sempre, insomma di eliminarlo fisicamente.
Quindi altererà drasticamente il vino, stavolta avvelenandolo con una dose letale, e Tito morirà sotto i suoi occhi! Purtroppo questo stratagemma porterà conseguenze tragiche anche per un altro personaggio: la povera Melitta.
Un’altra cosa che ci era nota era la rivalità tra Quinto Lentulo Batiato e Solonio, ma ignoravamo come fosse nata questa rivalità. Ed è stata una sorpresa vedere che i due non solo non si odiavano ma erano addirittura molto amici. Il prequel infatti ci mostra Batiato e Solonio più giovani, alle prese con le loro scuole di gladiatori; ci fa vedere i combattimenti organizzati da Batiato, sempre spalleggiato dal suo fido Solonio. I due erano inseparabili, anche se la figura di Batiato si imponeva maggiormente, e a volte arrivava addirittura ad oscurare quella del povero Solonio, che soffriva questa condizione, ma per amore dell’amico la accettava, e si prestava a rivestire il ruolo di spalla, e a prendere parte ai macchinosi piani di Quinto.
Ma ad un certo punto Solonio deve essersi stufato e intravista una possibilità di affrancarsi dalla figura dell’amico e di poter giocare egli stesso un ruolo di primo piano, volterà le spalle a Quinto, infrangendo un patto da loro stretto. Solonio così, dopo aver aiutato Batiato ad eliminare Tullio, e a ricattare il giovane lanista Vezio, si prenderà tutti i gladiatori che quest’ultimo sarà costretto a donargli. Solonio, non dividerà i lottatori di Vezio col suo amico Quinto, no, li terrà tutti per sé andando a rinfoltire la sua Scuola con tanti ottimi gladiatori, in modo da poter essere ora molto più competitivo e rivaleggiare alla pari con l’amico in fatto di incontri nell’Arena. Naturalmente Batiato non manderà giù questo affronto: questo per lui equivale ad un tradimento, e non perdonerà mai Solonio per avergli voltato le spalle, per aver infranto il loro accordo, ma soprattutto non perdonerà mai il fatto che l’amico abbia voluto affrancarsi da lui, liberandosi da quel rapporto di simil-sudditanza, che, magari involontariamente, Batiato esercitava su Solonio. Batiato amava sentirsi superiore, amava quel rapporto di amicizia che comunque lo poneva un gradino sopra all’amico, amava poter contare su di lui, ed essere aiutato e sostenuto dal fidato Solonio che come un cagnolino lo seguiva sempre e comunque, senza pretendere chissà che, per ricevere poi solo qualche briciola, ovvero la semplice considerazione da parte di Quinto. E secondo me è proprio il fatto di aver perso questo rapporto che ha fatto infuriare Batiato, e ha dato il via al sentimento di odio (che poi tra i due diventerà reciproco), che infine culminerà con la triste sorte di Solonio.
Di Lucrezia invece sapevamo dei suoi incontri clandestini con Crisso, della sua relazione segreta, relazione in cui lei era totalmente innamorata, e credeva erroneamente di essere ricambiata, mentre lui era costretto a soddisfare la sua Padrona, non amandola affatto. Quello che non sapevamo, era come fosse iniziata questa storia: in pratica Lucrezia decide di avere un amante, non per puro divertimento, bensì, perché pressata dalle continue pretese del suocero Tito, che vuole che lei dia un erede a Quinto, altrimenti la reputa inutile per l’avvenire del figlio, e pretende che quest’ultimo la cacci via.
Lucrezia, quindi vede un’unica soluzione a questo problema: restare incinta di un altro uomo, per poi far passare il figlio come suo e di Quinto. Decide allora, un po’ come si fa per i cavalli, di selezionare un buon ‘esemplare riproduttore’, e la scelta cade su uno schiavo (perché così costretto ad obbedire alla richiesta e costretto a non rivelare mai niente). Ma questo schiavo deve essere anche prestante e prolifico, e quindi per lei non poteva esserci scelta migliore della nuova giovane recluta: il gladiatore gallo Crisso, visto che girano voci che reputano i Galli come ottimi soggetti per generare numerosa prole. All’inizio Lucrezia è disgustata all’idea di giacere con uno schiavo, che lei considera solo come un rozzo selvaggio, ma il raggiungimento del suo obbiettivo è più importante e quindi fa buon viso a cattivo gioco. Poi però qualcosa deve essere cambiato e la Padrona ‘verrà conquistata dal suo schiavo’. Lucrezia si innamorerà di Crisso e dunque, con i loro incontri segreti, unirà l’utile al dilettevole.
Per quanto riguarda Crisso invece lo avevamo conosciuto, nella prima stagione della serie, come il Campione di Capua, il Campione della Scuola di Batiato, rispettato e stimato dai suoi compagni e acclamato dalle folle. L’abbiamo visto fare il gradasso nel Ludus, tormentare le nuove reclute (tra le quali c’era anche Spartacus, che però gli dava del filo da torcere), pavoneggiarsi e vantarsi della sua condizione di leader, ma non sapevamo come fosse diventato tale! In questo prequel vediamo l’inizio della sua vita da gladiatore, vediamo come attira l’attenzione di Batiato su di lui, convincendolo così ad acquistarlo da Tullio; lo osserviamo muovere i primi passi su quella ‘Terra Sacra irrorata da lacrime di sangue’, alle prese con gli allenamenti. E vediamo come, anche lui, a sua volta, abbia dovuto subire le angherie e i soprusi dei compagni più anziani. Ma quella testardaggine e quella determinazione che contraddistinguono il personaggio di Crisso nella prima stagione, c’erano già tutte anche qui. Infatti Crisso dimostra da subito l’intenzione di diventare qualcuno, di lasciare il segno, di essere il migliore, e seppur totalmente inesperto nella lotta col gladio, non difetta certo di grinta e di ambizione. Si impegnerà, e tra un allenamento e un combattimento, tra un grugnito ed un altro (eh sì perché l’Indomito Gallo più che parlare si esprime urlando e sbraitando, hi hi hi ), in breve tempo conquisterà il marchio della Scuola di Batiato, e con esso la fiducia ed il rispetto degli altri gladiatori. Crisso è anche molto orgoglioso e non vede l’ora di misurarsi con Gannicus in un combattimento. Certo il suo orgoglio ne risentirà quando Gannicus (ormai deciso a farsi vendere per andar via dalla Casa di Batiato e allontanarsi così da Melitta) si lascerà battere volontariamente da lui, nel torneo indetto da Tito per stabilire il Campione della loro Casa. Crisso non gradirà vincere in questo modo e non aspetterà altro che un vero, reale confronto con il Celta. L’occasione sembra presentarsi durante i Giochi nella nuova Arena di Capua, ma anche questa volta sfumerà sotto gli occhi del Gallo.
Di Enomao invece sapevamo che dopo il combattimento con Theokoles non aveva più calcato l’Arena. Sapevamo che da allora era diventato il Doctore, il Maestro d’armi nel Ludus di Batiato, ma non eravamo a conoscenza di come fosse giunto a ricoprire questo incarico. Tutto avviene quando Ulpius il Maestro d’armi scelto da Tito, viene contrariato dalla decisione di Quinto Lentulo Batiato di concedere il marchio della confraternita ad Ashur e Dagan. Secondo lui infatti i due siriani non se lo sono guadagnati per merito, superando un esame finale, ma l’hanno ottenuto per altre vie. Ed infatti è così: hanno aiutato Quinto in uno dei suoi sporchi affari. Ulpius non esita a mostrare il suo disappunto a Quinto, ma il Padrone si stizzisce molto per questo affronto: essere ripreso da un suo servitore è inaccettabile per lui e decide di togliergli l’incarico di Doctore ed assegnarlo ad Enomao. Ulpius sembra accettare la cosa, ma poi si reca da Enomao e in uno scatto d’ira e apparentemente senza motivo lo attacca con le armi. Enomao, non capisce cosa stia succedendo, ma non può far altro che difendersi, e durante la lotta colpisce mortalmente il suo Maestro, uccidendolo. Questo non era nelle intenzioni di Enomao, ma probabilmente era in quelle di Ulpius, che forse ha cercato volontariamente la morte, non sopportando il disonore di aver perso il suo grado e il suo scopo nella vita, e che, forse, con questa ultima sfida, ha voluto testare le capacità del suo allievo, e vedere se fosse degno di ricoprire quell’incarico. Infatti poco prima di spirare Ulpius rivolgendosi ad Enomao dice di aver fatto un ottimo lavoro con lui e avergli insegnato bene, e può dunque morire soddisfatto, lasciando la sua eredità in buone mani!
Di Enomao sapevamo anche che aveva perso la sua amata moglie, infatti lo rivela a Spartacus in un momento di confidenza, ma non conoscevamo la triste sorte toccata alla dolce Melitta. Non sapevamo che fosse morta, tra atroci sofferenze, avvelenata dal vino alterato da Lucrezia. E neanche Enomao sa chi è stato veramente a causare la morte della sua sposa!
Sapevamo che Enomao non beve vino ormai da anni, anche questo lo rivela a Spartacus, ma non ne conoscevamo le ragioni, e ora sapendo della tragica morte di Melitta avvenuta proprio per mezzo di questa bevanda, capiamo il motivo per cui Enomao si astiene dal berne. E questo spiega anche perché si decide ad assaggiare di nuovo del vino proprio per festeggiare l’eventuale ricongiungimento di Spartacus con Sura. Infatti Enomao, che ha perso la sua donna, sa cosa prova Spartacus e quanto sia forte il suo desiderio di poter riabbracciare la propria sposa, e probabilmente vede in quel possibile gioioso ritrovarsi del Trace con Sura, un suo tanto sperato, ma impossibile (almeno in questa vita), ritrovarsi con la sua Melitta.
Per quanto riguarda Naevia l’avevamo conosciuta in Sangue e Sabbia come la schiava personale di Lucrezia, e l’avevamo lasciata nel momento in cui la sua Domina aveva scoperto la sua storia d’amore con Crisso e dunque l’aveva punita e cacciata per sempre dalla Casa, probabilmente destinata ad una triste sorte in qualche miniera. Nel prequel troviamo una giovanissima Naevia, appena entrata a servizio nella Casa di Batiato. All’inizio vediamo che Naevia è più sorridente di quella vista nella prima stagione della serie, è più spensierata, d’altronde ancora non aveva assistito a tutte le nefandezze compiute in quella Casa. Poi pian piano comincerà a capire quella realtà in cui è costretta a vivere e cambierà, perdendo la sua ingenuità e la speranza in un futuro migliore per lei e per la sua migliore amica. Infatti, in questa miniserie, veniamo a conoscenza della sua amicizia con un’altra schiava, Diona, amicizia che risale alla loro infanzia. Infatti le due ragazze si considerano quasi sorelle, e vedremo che Naevia soffrirà molto per come verrà trattata la sua amica, sfruttata e umiliata per soddisfare i più bassi istinti dei ricchi viziosi Romani. Naevia cercherà di salvare la sua amica facendola fuggire, ma questo tentativo porterà solo alla morte della ragazza, che una volta rintracciata verrà marchiata come fuggiasca e pubblicamente giustiziata nell’Arena.
Ci verrà mostrato anche come Naevia diventerà la schiava personale della Padrona. Questo delicato incarico infatti era ricoperto dalla dolce Melitta, di cui Lucrezia si fidava ciecamente. Ma con la morte della povera ragazza, provocata, come sappiamo, involontariamente dalla stessa Lucrezia, la Domina si vedrà costretta a designare una nuova schiava per rivestire questo ruolo, e la scelta cadrà proprio su Naevia. Così vedremo che a Naevia verrà tatuata dietro la spalla una farfalla, simbolo che la identifica come schiava personale della Padrona e la lega indissolubilmente alla sua Domina. D’ora in avanti non dovrà lasciare mai sola la sua Padrona se questa lo richiederà, e vivrà sempre a stretto contatto con lei, raccogliendo tutte le sue confidenze. Quindi dovrà dimostrarsi estremamente leale e fedele nei confronti di Lucrezia. Inoltre la sua verginità verrà preservata e custodita come un dono da offrire un giorno a qualcuno che i suoi Padroni riterranno meritevole di avere la ragazza in sposa. Osservando la tristezza sul volto di Naevia capiamo subito che la giovane non è affatto felice di ricoprire questo ruolo e svolgere le delicate funzioni che esso comporta. Certo, con questo suo nuovo incarico, probabilmente non farà la fine della povera Diona, sfruttata e uccisa. In qualche modo Naevia sarà protetta. Almeno fino a quando, come noi sapremo poi, non tradirà la fiducia della Domina, scatenando così tutta la sua ira.
E Ashur? Beh, di Ashur sapevamo già che era un fetente, ma non conoscevamo come fosse iniziata questa sua onorata carriera di fetente.
Qui vediamo il siriano entrare per la prima volta nel Ludus di Batiato, acquistato al mercato degli schiavi insieme al suo amico Dagan. I due condividono la provenienza dalla stessa terra, ma Dagan parla solo la sua lingua, non capisce nient’altro e quindi sarà Ashur a fare da interprete per lui. Dapprima questa cosa sarà utile a Dagan, poiché Ashur lo salverà in diverse occasioni traducendo diversamente ciò che dice (per lo più insulti verso i compagni, il Maestro e perfino i Padroni). Poi però Ashur si approfitterà di questa situazione e traducendo per lui danneggerà l’amico.
In Sangue e Sabbia avevamo visto che Ashur era disprezzato da tutti i compagni, e anche nel prequel la situazione non è diversa: essendo una nuova recluta Ashur è vittima di scherzi e atti di nonnismo da parte degli altri gladiatori, e lui questa cosa non la manderà giù. Inoltre non verrà mai considerato da nessuno un valido gladiatore, neanche dal Maestro Enomao.
Vedremo come Ashur si approccerà ai primi combattimenti, e come cercherà di compensare le sue scarse doti gladiatorie con una disonesta furbizia che lo porterà a danneggiare gli altri per salvare sé stesso. A rimetterci sarà soprattutto il suo ormai ex-amico Dagan, che una volta capito il meschino gioco di Ashur nei suoi confronti gli volterà le spalle e prenderà le distanze da lui, come tutti gli altri gladiatori, e che, come tutta risposta, verrà prima ferito gravemente ad un occhio e poi ucciso proprio da Ashur durante lo scontro finale nell’Arena di Capua.
In Sangue e Sabbia non abbiamo mai visto Ashur combattere a causa della sua ferita, ma sapevamo che era un gladiatore. Quello che non sapevamo era come Ashur si fosse guadagnato il marchio della Confraternita, e qui ci viene mostrato: Ashur prenderà parte attiva in uno degli sporchi affari di Quinto Lentulo Batiato e quest’ultimo per ricompensarlo lo farà entrare di diritto a far parte dei Gladiatori della sua Casa, senza dover passare nessun esame sul campo. Tutto ciò garantirà ad Ashur lo status di gladiatore, ma non gli farà ottenere dei confratelli, né il loro rispetto, anzi per questo motivo e per i suoi vili comportamenti sarà sempre da tutti disprezzato.
Un’altra cosa che conoscevamo sul conto di Ashur era la grave ferita che aveva riportato ad una gamba, che gli impediva appunto di tornare a calcare l’Arena, e sapevamo che a procurargliela era stato Crisso, e da questo era scaturito un costante odio del siriano verso il Gallo, oltre all’invidia che già provava nei suoi confronti. Quello che invece ignoravamo era come questa ferita gli fosse stata inflitta, e perché, e in quale occasione. Beh, con il prequel questi interrogativi ci vengono chiariti e ci viene mostrato come nell’epico combattimento finale nell’Arena di Capua appena inaugurata, Ashur e Crisso si trovano a battersi insieme contro gli uomini di Solonio, ma ad un certo punto il Siriano fa un’offerta a Crisso, ovvero gli chiede di allearsi con lui per eliminare Gannicus e poi giocarsi la vittoria tra di loro, facendo leva sulla loro comune situazione di nuovi entrati nella Scuola di Batiato. Ovviamente Crisso non approva questi sporchi giochi, lui ammira Gannicus e non solo, vuole confrontarsi direttamente con il Celta quindi decide di togliersi dalle scatole proprio Ashur, infila di netto la sua spada nella gamba del siriano, lo lancia oltre il cerchio di fuoco e lo elimina così dalla competizione.
C’ è un’altra cosa che ci era ben nota e visibile nella prima stagione: l’imponente e maestoso Anfiteatro Capuano, l’Arena in cui si svolgono i combattimenti che vedono protagonista Spartacus e gli altri gladiatori della Scuola di Batiato. Con ‘Gli dei dell’Arena’ vediamo il sorgere di questa grandiosa struttura, assistiamo alla sua nascita, la vediamo prendere forma piano piano, fino a vedere la sua apertura e i primi Giochi svolti al suo interno. Ma quello di cui eravamo tutti all’oscuro è che all’interno delle sue fondamenta fosse stato inserito anche il viscido Tullio. Ebbene sì, Batiato portando avanti la sua vendetta, deciderà di uccidere così il suo nemico: lo murerà ancora vivo proprio nelle fondamenta dell’Anfiteatro. E così, ironia della sorte, Tullio, che aveva tanto voluto la costruzione di quell’Arena, ne sarà parte integrante in eterno!
Insomma, in conclusione si può dire che questo prequel ci ha svelato molte cose, e ha fatto luce su diversi aspetti della vita dei personaggi che noi ignoravamo e che forse…… loro non avrebbero voluto rivelarci!
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Re: Spartacus
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Re: Spartacus
Trebius
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SCHEDA TECNICA
NOME: Trebius
PROFESSIONE: Mercante di Schiavi
POPOLO: Romano
CORPORATURA: Statura media, occhi e capelli scuri
RELAZIONI: Agron (Schiavo) Duro (Schiavo) Segovax (Schiavo)
ATTORE: Stephen Butterworth
Trebius è un mercante di schiavi di Capua e primo proprietario dei fratelli Agron e Duro oltre a Segovax.
ASPETTO
Trebius compare come un uomo di statura media, ha una leggera barba ma soprattutto dei grandi occhi molto distanziati tra loro, i suoi capelli sono lunghi fino alle spalle, spesso spettinati, sporchi, di colore nero con qualche capello bianco sulle punte, le sue vesti sono lacere e porta al collo molti ciondoli e collane.
PERSONALITA'
Trebius è un uomo di poca morale, frequenta i bordelli ed è un mercante di schiavi situato a Capua dove spesso fornisce schiavi per i lanisti locali per l'uso di gladiatori.
Fonte: Spartacus Wiki
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- Messaggio n°445
Re: Spartacus
SPARTACUS SANGUE E SABBIA (Spartacus Blood and Sand)
Il Serpente rosso
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"Il Serpente Rosso" è il primo episodio di Spartacus: Sangue e Sabbia, nonché il primo episodio dell'intera serie.
Curiosità
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Il Serpente rosso
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"Il Serpente Rosso" è il primo episodio di Spartacus: Sangue e Sabbia, nonché il primo episodio dell'intera serie.
Curiosità
- Il vero nome di Spartacus non viene mai rivelato in tutta la serie, riferimento analogo al fatto che nemmeno il vero nome del gladiatore Spartaco, in realtà, non fu mai rivelato.
- In questo episodio, i Geti vengono raffigurati come dei mostri selvaggi, mentre i Maedi, a cui appartiene Spartacus, come le persone più nobili di tutta la Tracia. Nella realtà, invece, era presumibilmente il contrario.
- I legionari romani vengono rappresentati mentre brandiscono la "lorica segmentata"; la comparsa di tale arma, invece, è attestata solo verso il 9 a.C., cioè 60 anni circa più tardi rispetto agli eventi della serie.
- Nuovamente i legionari romani sono dotati di lance simili a quelle utilizzate dagli opliti greci in cambio della consueta pila o pilum.
- Il nome del re persiano Mitridate si riferisce al famoso Mitridate VI, re del Ponto, detto anche Mitridate il Grande, che si diceva fosse discendente di Dario il Grande di Persia. Egli intraprese per tutta la vita tre guerre contro la Repubblica romana, dette appunto Mitridatiche. Entrato in contrasto con il figlio Farnace che aveva chiesto la pace con i Romani, sventò una congiura perdonando il figlio e consegnandogli definitivamente il regno; tuttavia, temendo di essere consegnato nelle mani dei Romani, decise di suicidarsi: dapprima, con il veleno, che tuttavia non ebbe successo, dal momento che lui stesso ne era immune dopo che per moltissimo tempo ne aveva assunto piccole dosi periodicamente; in seguito, con l'aiuto di un suo generale si trafisse con la spada.
- Il nome del console Cotta, a cui Glabro fa riferimento per l'attacco definitivo a Mitridate, è un riferimento a Marco Aurelio Cotta console romano nel 74 a.C. che partecipò alla Terza Guerra Mitridatica, ricevendo il governatorato della Bitinia e una flotta per difendere la Propontide. Fu successivamente costretto a ritirsi a Calcedonia dopo essere stato irrimediabilmente sconfitto; ma, avuta salva la vita, fece ritorno a Roma. La sorellastra Aurelia Cotta era la madre di Giulio Cesare.
- Il famoso re della Tracia, a cui Batiato si ispira per dare il nome Spartacus al guerriero trace, è un riferimento a Spartoco I che fu sovrano del Bosforo Cimmerio dal 438 al 433 a.C., e fu il fondatore della dinastia Spartocida.
- Nel momento in cui vengono presentati i gladiatori di Solonio e Batiato per i Giochi in onore del Senatore Albinio, si nota che su una danzatrice, subito dopo la scena in cui appaiono anche dei nani mascherati, appaiono delle protesi mammarie, cosa che è impossibile nel periodo romano.
- Le morti nell'arena durante tutta la serie sono molto superiori alla verità storica, visto il costo per il mantenimento e l'addestramento dei gladiatori; soltanto in rari casi, quando avveniva un comportamento vile, poteva essere proclamata la condanna a morte grazie all'acclamazione del pubblico. Ma generalmente i combattenti erano esperti nel dare spettacolo ed il pubblico non voleva vederli morire affinché potessero combattere di nuovo in futuro.
- Secondo Steven S. DeKnight il programma Starz voleva che le direzioni degli episodi fossero in maggiore nello stile del film 300. E' per questo motivo che l'episodio è un po' fuori luogo rispetto agli altri che sembrano differenziarsi da esso: questo a dimostrazione del fatto che DeKnight dovette lottare per avere il pieno controllo della serie.
Citazioni
- Sura: Il consiglio ha deciso?
Spartacus: Andiamo in guerra.
Sura: Ho chiesto agli Dei di benedire la tua spada.
Spartacus: Quando annienteremo i Geti, non avrò più motivo di conservarla.
Sura: E che cosa farà il mio uomo senza la sua spada?
Spartacus: Coltiverò la terra, alleverò capre... farò dei figli.
Sura: Non combatterai più?
Spartacus: Mai più. Resterò sempre al tuo fianco.
Sura: Quando partirete?
Spartacus: Alle prime luci.
Sura: Allora vieni a letto. Se una notte è quello che mi resta, ne voglio godere ogni minuto... - Spartacus: Speravo di svegliarmi accanto alla mia donna.
Sura: Si è alzata presto per pregare, affinché il suo sposo resti con lei.
Spartacus: Credevo fossimo d'accordo.
Sura: Sì, però... gli Dei mi hanno fatto avere una visione. Mentre dormivo.
Spartacus: Che cosa hai visto?
Sura: Il mio uomo in ginocchio, inchinato davanti a un grande serpente rosso, e intanto la vita defluiva dalle sue vene.
Spartacus: Che significato gli attribuisci?
Sura: È un monito. Se tu andrai in guerra, il destino ha in serbo per te grandi sventure.
Spartacus: I Geti venerano il lupo di montagna. Non tengono in nessun conto i serpenti. È soltanto un sogno.
Sura: E se non lo fosse?
Spartacus: Ho dato la mia parola, Sura. Sangue e onore. È importante per un uomo. Ma nessuno mi impedirà di tornare fra le tue braccia, né i Geti né i Romani. E neanche gli Dei stessi.
Sura: Le notti stanno diventando così fredde... Come farò a letto senza il tuo calore?
Spartacus: Alza la veste [lei la alza e lui gli lega un lembo di stoffa attorno alla coscia]. Pensami stretto alle tue cosce, il ricordo ci scalderà entrambi.
Sura: Uccidili tutti.
Spartacus: Lo farò per te. - Glabro: Vi chiediamo di allearvi con Roma, di impegnarvi come forze ausiliarie e di unirvi alla nostra campagna!
Spartacus: Fino a quando...? Ho chiesto fino a quando!
Glabro: Fino alla vittoria.
Spartacus: E come sarà commisurata? Hanno già fatto sanguinose incursioni in passato, stuprando le nostre donne, uccidendo i nostri figli, ogni volta li abbiamo ricacciati indietro, e sono sempre tornati.
Membro del consiglio: Quest'uomo interviene a sproposito, ma non ha detto una parola che non sia vera.
Spartacus: Se decidiamo di unirci ai Romani, l'obiettivo deve essere chiaro: distruggere i Geti. Sterminarli.
Glabro: D'accordo. Li stermineremo. - Albinio: Dimmi come si chiama quest'uomo.
Glabro: Non mi sono mai curato di chiederglielo.
Batiato: Da come combatte, mi ricorda il leggendario Re della Tracia. Spartacus, era il suo nome.
Fonte: Spartacus Wiki - Wikipedia
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- Messaggio n°446
Re: Spartacus
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- Messaggio n°447
Re: Spartacus
Il Giuramento dei Gladiatori
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"Il Giuramento dei Gladiatori" è il secondo episodio di Spartacus: Sangue e Sabbia, ed è il secondo episodio dell'intera serie.
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"Il Giuramento dei Gladiatori" è il secondo episodio di Spartacus: Sangue e Sabbia, ed è il secondo episodio dell'intera serie.
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- Il "Sacramentum Gladiatorum", che dà il titolo all'episodio originale, è il giuramento che ogni recluta deve recitare dopo aver passato la prova e prima di ricevere il Marchio della Confraternita. Queste le parole del giuramento: "Dedico il mio corpo, la mia mente, la mia volontà, alla gloria di questa scuola e agli ordini del mio padrone, Batiato. Sopporterò di essere bruciato, legato, bastonato, trafitto dalla lama, per perseguire l'onore nell'arena".
- Nel momento in cui Spartacus si trova di fronte a Crisso nel bagno per gladiatori del ludus, tenta di pronunciare il suo vero nome, ma viene interrotto dal gallo. Anche durante la presentazione delle reclute Spartacus ribadisce al Maestro che quello che gli è stato dato non è il suo nome. Con ciò si è voluto istituire un aggancio alla verità storica, essendo stato il nome del trace presumibilmente non il suo reale nome.
- Batiato mostra, sia in questo episodio sia per tutta la prima serie, il desiderio di acquisire il titolo del patronato grazie al favore di Glabro e dei potenti di Roma. Nella realtà storica, però, questo non sarebbe stato possibile, perché un lanista, pur diventando molto ricco e famoso, rimaneva comunque qualche gradino più sopra dello schiavo, e non poteva, dunque, salire di stato sociale. Qualcunque uomo che sceglieva di intraprendere professioni moralmente riprovevoli come quella del lanista, automaticamente rinunciava ad tutta una serie di diritti, tra i quali il voto e l'accesso alle cariche pubbliche.
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- Crisso: Non mi dire... il cane Trace è ancora vivo.
Barca: Sarebbe lui, lo Spartacus di cui tutti celebrano la vittoria nell'arena?
Spartacus: Spartacus? Ma il mio nome non è...
Crisso: A nessuno qui interessa chi eri prima, Trace.
Barca: Se è per questo, non ci interessa neanche chi è adesso.
Spartacus: Dove ci troviamo?
Ashur: Nell'aldilà, amico mio, fuori dai suoi cancelli arrugginiti.
Crisso: E tu sei l'ospite d'onore di Batiato, padrone della più grande palestra della città di Capua!
Spartacus: Palestra?
Crisso: Una scuola per gladiatori, dove gli uomini si trasformano in Dei: il sangue è la loro ambrosia, l'arena la loro montagna sacra. La più vera delle confraternite!
Barca: Se sopravviverete, tra qualche giorno tu e le altre reclute potrete unirvi a noi gladiatori, e fregiarvi del nostro marchio.
Crisso: Nel frattempo, possiamo offrirti qualcosa? Cibo, acqua... o forse dell'olio profumato per i piedi?!
Spartacus: Acqua, grazie. [risata generale]
Crisso: Oh, è lento anche di pensiero!
Barca: Che ti aspettavi da un Trace? Non senti il puzzo di pesce marcio?
Crisso: Sì, sono tutti così, a parte le loro femmine... quelle puzzano di piscio e di sterco.
Spartacus: E tu chi saresti?
Crisso: Io sono il campione di Capua, il più eroico della mia razza: Crisso, il gallo invincibile!
Spartacus: Un gallo... questo spiega il motivo per cui puzzi come una femmina.
Crisso: Ora pensa a curare le tue ferite. Nutriti, riposati, e quando avrai recuperato le forze, riprenderemo questo argomento. - Maestro: Che cosa c'è, sotto i vostri piedi? Rispondete! Kerza rispondi!
Kerza: Sabbia... [risata generale]
Maestro: Crisso, che cos'hai sotto i piedi?
Crisso: Terra sacra, maestro. Irrorata da lacrime di sangue.
Maestro: Le vostre lacrime, il vostro sangue, le vostre misere vite qui dentro possono valere qualcosa. Ascoltate, imparate e forse vivrete... da gladiatori! - Maestro: Un gladiatore non deve temere la morte: la abbraccia, la accarezza, la fotte. Ogni volta che entra nell'arena infila il suo arnese nelle fauci della bestia, e prega di aver finito prima che serri le sue mascelle! Nessuno di voi, cani randagi, resisterebbe un solo istante! Eccetto uno di voi... questo Trace, misero e malconcio, ne ha battuti quattro nell'arena, condannato a morte con nient'altro che una spada a cui affidare la propria vita. Lo hanno attaccato... ancora, e ancora, e ancora... ha sfidato la morte, il Fato, gli Dei stessi! Osservate quest'uomo, studiatelo, e rammentate che è solo una nullità! Un codardo, un ausiliario disertore! La sua vittoria nell'arena... illusoria come il suo coraggio! Egli ha sfidato gli uomini incapaci di Solonio, rivale del vostro padrone.
Batiato: Se avesse sfidato uno dei miei gladiatori, la sua testa giacerebbe molto lontana dal corpo. - Batiato: Tu sei il più temibile tra gli animali, la tua furia nasce dal cuore. Che faresti per riabbracciare la tua sposa? Per il calore della sua pelle, il sapore delle sue labbra? Uccideresti?
Spartacus: Chiunque mi separasse da lei.
Batiato: Quanti uomini? Anche 100? Anche 1000?
Spartacus: Li ucciderei tutti.
Batiato: E allora fallo nell'arena. Battiti per me, per onorare i miei avi. Dimostra il tuo valore, raggiungi la vetta, conquista la tua libertà, e quella della donna che hai perduto!
Spartacus: Io non ho perduto Sura. È stata portata via da Glabro.
Batiato: L'uomo deve accettare il suo destino, o farsi annientare da esso.
Spartacus: Perché dovrei mettere tutto il mio futuro, nelle mani di un altro romano?
Batiato: Per ciò che esse stringono [gli mostra il lembo di stoffa di Sura]. È della tua sposa? Supera la prova finale di questa sera con onore e umiltà, chiamami padrone... e io ti aiuterò a ritrovarla! Sta a te decidere. - Batiato: Ora la tua vita ha uno scopo. Promettimi fedeltà, recita il giuramento dei gladiatori.
Spartacus: Dedico il mio corpo, la mia mente, la mia volontà alla gloria di questa scuola e agli ordini del mio padrone, Batiato. Sopporterò di essere bruciato, legato, bastonato, trafitto da una lama per perseguire l'onore nell'arena.
Batiato: Benvenuto nella confraternita!
Fonte: Spartacus Wiki - Wikipedia
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- Messaggio n°448
Re: Spartacus
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- Messaggio n°449
Re: Spartacus
I Vulcanalia
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"I Vulcanalia" è il terzo episodio di Spartacus: Sangue e Sabbia, ed è il terzo episodio dell'intera serie.
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"I Vulcanalia" è il terzo episodio di Spartacus: Sangue e Sabbia, ed è il terzo episodio dell'intera serie.
Curiosità
- Dalle parole che Varro rivolge a Spartacus, riguardanti il fatto che Gneo ha dovuto attendere 5 anni per avere la possibilità di combattere contro Crisso, si deduce presumibilmente che l'arco temporale che intercorre tra gli eventi di Spartacus: Gli Dei dell'Arena e Spartacus: Sangue e Sabbia sia all'incirca di 5 anni.
- In questo episodio Crisso dimostra di non conoscere Naevia e di non sapere nemmeno da quanto tempo lei si trovi nella Casa di Batiato. Un dato questo che, in maniera del tutto coerente, si ritrova nel prequel Spartacus: Gli Dei dell'Arena, in cui non vi è alcuna interazione tra i due personaggi.
- Durante l'allenamento, Gneo lancia la sua rete attorno al palo e, quando cerca di raccoglierla, viene bloccato da Spartacus che comincia a parlargli. Nello stesso istante, però, in cui il trace interviene, al cambio di inquadratura la rete è già attorno al braccio di Gneo.
- Nella versione originale Crisso pronuncia le parole "Capua, shall I begin?" che tradotto sarebbe "Capua, devo cominciare?".
- Varro racconta a Spartacus che Barca fu l'ultimo sopravvissuto ai giochi gladiatori dopo aver ucciso il padre Mago successivamente alla caduta della città di Cartagine. In realtà, la città africana in questione è stata distrutta dai Romani nel 146 a.C., mentre la storia della serie si svolge negli anni intorno al 74-73 a.C.; quindi, Barca dovrebbe avere più di 70 anni, inverosimile rispetto all'età mostrata dal personaggio.
- Il nome "Gemelli del Gargano" è un chiaro riferimento alla Battaglia del Gargano, in cui il vero esercito ribelle guidato da Crisso, distaccatosi poco prima da quello di Spartaco, affrontò i Romani. In questa battaglia, il suo esercito fu sconfitto e lo stesso gallo trovò la morte.
Citazioni
- Maestro: Spartacus! Tu attacchi senza criterio! Il tuo avversario potrebbe trarne giovamento...
Spartacus: Non quando è sdraiato per terra.
Maestro: Le tue parole rispecchiano le tue azioni: sono prive di criterio [lo sgambetta facendolo cadere]
Barca: Tutti uguali questi Traci... finiscono sempre a terra a gambe all'aria!
Crisso: Il loro posto è quello. - Lucrezia: Ho comprato questa nuova collana per il festino. Cosa provi guardandola?
Crisso: Mi ribolle il sangue, ma è falso attribuirne il merito alla collana.
Lucrezia: E che cos'è che ti infuoca?
Crisso: Il candore della tua pelle, le tue labbra, e il piacere che promette il tuo corpo. - Crisso: Non morire troppo in fretta!
Gneo: Io? Danzerò sulle tue ossa!
Crisso: E come? Senza gambe?
Fonte: Spartacus Wiki - Wikipedia
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Re: Spartacus
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Re: Spartacus
Le Fosse dell'Ade
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"Le Fosse dell'Ade" è il quarto episodio di Spartacus: Sangue e Sabbia, ed è il quarto dell'intera serie.
Curiosità
Citazioni
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"Le Fosse dell'Ade" è il quarto episodio di Spartacus: Sangue e Sabbia, ed è il quarto dell'intera serie.
Curiosità
- Nella stanza nuziale di Lucrezia e Batiato si può notare che i muri sono adornati con motivi e colonnine sottili a forme vegetali, sormontati da uccelli detti "paradeisos": si tratta di un motivo tipico del III stile pittorico pompeiano, che è nato nel I secolo d.C. cioè all'incirca 100 anni dopo gli eventi della serie.
- Varro, in questo episodio, confessa a Spartacus di aver scommesso qualche volta nei combattimenti delle fosse.
- Ancora una volta Sura sottoforma di visione suggerisce a Spartacus di "ucciderli tutti".
- Nella versione originale è possibile notare come la ragazza che trasporta le armi per la scelta prima dei combattimenti nelle fosse e che è sprovvista della mano sinistra sia praticamente nuda e sia dotata del membro genitale maschile, invece nella versione italiana censurata indossi uno slip aggiunto digitalmente.
- In Germania questo episodio è stato tagliato di circa un 1 minuto per garantire la visuale ai "minori di 18 anni" dalla FSK, successivamente è stata rilasciata una versione uncut dopo essere stata approvata dalla SPIO/JK che controlla la censura dei programmi televisivi.
- La Mandragola o Mandragora è un genere di pianta appartenente alla famiglia delle Solanaceae, avente proprietà anestetiche sviluppate dal medico greco Ippocrate.
Citazioni
- Batiato: Mi hai preso per uno stolto? Mi hai disonorato! Eravamo d'accordo, tu avevi giurato: avresti seguito l'addestramento, mi avresti chiamato padrone e avresti obbedito alle regole, mentre io avrei cercato la tua preziosa moglie. Ma ti sei fatto vincere dalla fretta... la sfida al Maestro, le tue manovre per diventare l'avversario di Crisso, la tua prima lotta con Crisso, il campione della maledetta Capua!
Spartacus: Riconosco il mio errore.
Batiato: Errore? Dei del cielo! Tu avevi la folla in mano! Sei riuscito a sopravvivere combattendo contro 4 uomini di Solonio, il tuo nome era su tutte le bocche! E ora, dopo la tua disfatta con Crisso, viene pronunciato con disprezzo! Il tuo piccolo errore rende il ricongiungimento con la tua sposa molto problematico.
Spartacus: Hai avuto sue notizie?
Batiato: So che il siriano a cui Glabro l'ha venduta era diretto a Nord. Ma dovrei essere un veggente per dirti dove.
Spartacus: Non devi smettere di cercarla.
Batiato: Prima infanghi il nostro onorevole patto e poi mi assilli con le tue pretese? Dimmi Trace: quali monete userai per riscattarla? E per il suo viaggio? Ti usciranno magicamente dall'ano? Se è così, forza, accovacciati!
Fonte: Spartacus Wiki - Wikipedia
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